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Vernacolo teggianese protagonista il 12 giugno a San Rufo con Cono Cimino e il suo libro – Salvatore Gallo per Vallo Più

Dopo la “prima” a San Marco di Teggiano nel settembre del 2022, il libro di Cono Cimino “Ni sìmu rufrišcati a la cìbbia  ri la Sinacòca”, cunti e versi in vernacolo teggianese,  sarà presentato il 12 giugno prossimo nell’Aula Consiliare del Comune di San Rufo per iniziativa della Biblioteca Comunale “Nicola Marmo”. Dopo i saluti dei sindaci di San Rufo e Teggiano, Michele Marmo e Michele Di Candia, il programma prevede gli interventi di Carmelo Setaro, Salvatore Gallo e Vincenzo Andriuolo. Prevista, altresì, la partecipazione di Angelo Marmo, Giuseppe Marmo e Antonio Setaro. Note musicali a cura di Rocco Fasano. Pubblichiamo di seguito l’intervento che Salvatore Gallo ha scritto per vallopiù.it

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Di Salvatore Gallo

Prima Teggiano ed ora San Rufo! Cono Cimino con il suo libro “Ni sìmu rufrišcati a la cìbbia  ri la Sinacòca” amplia la platea di lettori all’interno del Vallo di Diano e non solo. L’autore attraverso i suoi “Cundi”, versi in vernacolo teggianese, traendo spunto dai racconti di quando era adolescente, fattigli da suo zio Salvatore, narrazioni della tradizione orale e aneddoti di un mondo rurale permeati di sapienza e di autenticità vissuta e da altre persone, in modo particolare da Antonio Lo Buglio (zì ‘Ndòniu ri Quotaddiànu), riporta alla mente luoghi, fatti e persone che la memoria aveva scrupolosamente custodito.

Antropologo, attore ed esperto scenografo, attraverso un minuzioso lavoro di ricerca, riesce a riportarli sul palcoscenico della vita e, come su una giostra, a rappresentarli nel loro vissuto quotidiano, con le loro debolezze, la loro determinazione, la loro inventiva e le loro speranze. E’ il caso della storia “lu vutu” dove si racconta di quanto accaduto a “SSurièlu ri Minghèttu”, il quale mentre arava un suo terreno si accorge ad un certo punto di aver perso il vomere (l’òmmaro) dell’aratro; sconsolato e non sapendo come fare, si rivolge a San Cono, promettendogli che nel caso glielo avesse fatto trovare, glielo avrebbe fatto d’oro. Dopo qualche giorno lo trova e la contentezza del momento subito dopo si trasforma in preoccupazione, perché si rende conto che non può mantenere il voto. E qui l’autore, attingendo alla sua vena poetica, gli risolve brillantemente il problema:”Sàndu Cònu, m’àja crèri, ssì tinìa l’accànzu ri ti fà l’òmmaru r’òru  nù ‘bbinìa a ‘nzulutà a ‘ttì chi stài ‘nzìnu a lu Signòru”, in altre parole, San Cono mio se avessi avuto la possibilità di fartelo d’oro, non ti avrei disturbato.

Come anche in quest’altro racconto “Ggiritièllu”, all’epoca un calzolaio della zona, il quale era solito guardare di lato dalla testa ai piedi chi gli portava delle scarpe da riparare (Quànnu ‘ngi purtàvi nu pàru ri scàrpi arriparà ti carafittàva ri squìngiu e ‘ppò ti rìa a ‘pparlà ), oppure quando andava a ritirarle, per prima cosa chiedeva se avesse portato i soldi (Üagliò li rinàri ‘dd’ài purtàtu?) E potrei continuare ancora con tanti altri “cundi”.

La particolarità di queste storie, oltre alle vicende raccontate e alla capacità di intreccio dell’autore, si evidenzia soprattutto nell’uso del dialetto teggianese, una vera e propria lingua, veicolo indispensabile della cultura degli avi. Si può affermare che il dialetto è una lingua tanto nuova quanto antica; nuova perché oggi nota a pochi e antica perché comprende una diversità di radici storiche, di culture e di esperienze umane. Si tratta di un patrimonio culturale che non può in alcun modo essere disatteso; attraverso il dialetto è possibile identificare fatti, luoghi, episodi, storia e tradizioni di un popolo.

Da sottolineare anche il forte elemento identitario del dialetto. Le parole dialettali sono molto più espressive della lingua italiana e danno una nuova forma e un significato peculiare alle parole stesse. Per Andrea Camilleri, il siciliano era una “faccenda di cuore”, come ritengo sia anche per Cono Cimino il teggianese, tenendo conto dell’amore e della passione che si riscontra in ogni suo lavoro e della capacità di fare raccontare se stessi, nel loro dialetto, i vari personaggi, molte volte umiliati e messi ai margini dalla vita.

SALVATORE GALLO

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