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Il caso di Giuseppina Giuliano: ma il lavoro non può essere un atto eroico quotidiano (di Angela D’Alto)

di Angela D’Alto

Su tutte le testate giornalistiche di ieri, è comparsa la foto di una giovane donna bruna, sorriso appena accennato, seduta in un treno pronto a partire mentre fuori è ancora buio. È diventa virale la storia di Giuseppina Giuliano, ventinovenne napoletana, entrata di ruolo a settembre come bidella in un liceo di Milano. A fronte di qualche calcolo veloce, si è resa conto che spostarsi a vivere a Milano le avrebbe portato via, tra affitti, bollette e costo della vita, il suo intero stipendio di 1100 euro mensili. E allora Giuseppina ha deciso di viaggiare, e di farsi Napoli-Milano andata e ritorno in freccia rossa ogni giorno, sabato compreso. Sveglia alle 4 del mattino e rientro a casa mai prima delle 23,30, per un totale di 1600 km al giorno per andare a lavoro. Malgrado il clamore sui media, i contorni della vicenda non sono del tutto chiari e ci sono delle cifre che non tornano. Probabilmente si tratta di una storia vera solo in parte, qualcuno dice figlia di un falso scoop, o magari semplicemente gonfiata dai media. Se ne parliamo, pur augurando il meglio a Giuseppina, è perché la vicenda ci dice qualcosa sulle ragioni profonde dell’attuale disagio sociale, diverso da quello che abbiamo conosciuto in passato.

La narrazione quotidiana che ascoltiamo sul tema del lavoro, nel nostro Paese, è a tratti imbarazzante, figlia di un dibattito che mostra tutti i limiti di una semplificazione qualunquistica, nella quale si contrappongono due macro teorie: da un lato, i sostenitori del ‘lavoro ad ogni costo’, anche se sottopagato e svilente, dall’altra i sostenitori di un neo assistenzialismo versione 2.0, di cui il reddito di cittadinanza, nelle forme e nelle modalità con le quali è stato introdotto in Italia, è la rappresentazione più avanzata.

Per la vulgata generale in molti settori, a partire da quelli stagionali, le persone non accettano proposte di lavoro perché temono di perdere il reddito, o la Naspi o la cassa integrazione e altri sussidi e “non hanno voglia di lavorare”. Ma chi sono queste persone, messe alla gogna sociale e considerati ‘lavativi’, e a cosa rinunciano, in realtà? Spesso si tratta di contratti part time, con turni di lavoro massacranti e mal pagati, se non in nero, e quindi privi di tutele e contributi. Un lavoro che assomiglia più a una gentile concessione che a una occasione. E allora, nei panni di queste persone, noi cosa faremmo? È legittimo tentennare e magari rifiutare un lavoro senza garanzie e rinunciare ai sussidi di cui godono?

Ma, soprattutto, di chi è la colpa della pessima (perché lo è, e bisogna avere il dovere di riconoscerlo) gestione di misure di sostegno come il reddito di cittadinanza? Dei cittadini beneficiari o, forse, di uno Stato che non riesce a organizzare e far funzionare politiche di sostegno che abbiano realmente un senso, e che si allontanino dalle farse dei vari navigator o delle pessime gestioni dei centri per l’impiego? Di uno stato che tra l’altro abbozza politiche sul lavoro senza curarsi del complemento essenziale per il lor successo, che è una formazione professionale adatta ai bisogni del mercato. Perché accanto alle vaste sacche di disoccupazione o sottooccupazione, ci sono sacche altrettanto vaste di offerta di lavoro insoddisfatta per mancanza di personale qualificato.

Come spesso accade nel nostro Paese, anche il dibattito sul lavoro è diventato motivo di una profonda frattura sociale, coi cittadini gli uni contro gli altri, e col giudizio spesso troppo semplice di chi, dall’alto della propria serenità economica e lavorativa, con il famoso ‘posto fisso’ magari sotto casa, giudica e condanna senza appello chi deve scegliere tra un lavoro mal pagato e senza diritti e una misura assistenziale gestita peggio.

In un famoso discorso a Memphis, pochi giorni prima di essere assassinato nella stessa città, Martin Luther King affermava:‘ Verrà un giorno nel quale la nostra società dovrà imparare a rispettare gli spazzini se vorrà sopravvivere, perché la persona che raccoglie la nostra spazzatura è, in ultima analisi, altrettanto importante del medico, perché se lo spazzino non facesse bene il suo lavoro le malattie sarebbero ovunque. Ogni lavoro ha la sua dignità’. Ed eccoci dunque, al tema dei temi: davvero ogni lavoro è dignitoso? Aveva ragione? A prescindere dalla natura del lavoro, che aprirebbe le porte a una riflessione etica affascinante ma troppo complicata, cosa è che qualifica come dignitoso un lavoro? È arrivato il momento che nella nostra società si affermi con forza un principio: il lavoro non è solo uno strumento di sostentamento, ma la possibilità, per ciascuno, di mettere a frutto il proprio talento, di essere utile agli altri di contribuire alla crescita delle nostre comunità.

E però, non sempre il lavoro ha queste caratteristiche. Perché ci sono lavori alienanti, svolti in condizioni disumane, che levano senso e dignità a chi invece la dignità personale ha il diritto di conservarla, che trasformano le vite di chi li svolge rendendole spesso precarie, tristi, difficili, infelici.Eppure, la nostra Costituzione, all’articolo 36 , recita ‘il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’. Ma basta davvero, questo articolo, scritto in modo così chiaro, a dare le necessarie garanzie? I braccianti agricoli sfruttati dal caporalato, gli stagionali pagati in nero, i camerieri di turni di diciassette ore a ottocento euro al mese, i precari rinnovati di sei mesi in sei mesi senza prospettiva e senza futuro raccontano di no. Le migliaia di pendolari che non riescono a sostenere il fitto in città come Milano o Roma, raccontano di no.Non è bastato, e non basta.

Tra l’altro, non è solo una questione di equità sociale. Si dice giustamente che per aumentare le garanzie sociali bisogna aumentare il potenziale di crescita e quindi aumentare la produttività del sistema. Anche fuori dall’Italia, l’Europa intera è scossa da scioperi e rivendicazioni di infermieri, personale paramedico ma anche di medici che abbandonano il servizio sanitario pubblico, stremati dallo sforzo sostenuto durante la pandemia, da orari massacranti e da salari modesti. Oppure la crescente difficoltà di reclutare insegnanti qualificati nella scuola pubblica, soprattutto per le materie scientifiche, a causa di una rimunerazione ritenuta insufficiente. Non è forse vero che una sanità efficiente e una scuola capace di formare i quadri del futuro non contribuisce alla produttività del paese almeno come gli investimenti nell’industria e nei servizi?

Siamo partiti dalla vicenda di Giuseppina quale che sia la realtà che esprime, perché ci è servita per riflettere sulla vera natura dell’attuale disagio sociale. Che non è più solo una questione di redistribuzione della ricchezza, ma di una necessaria ridefinizione del ruolo del lavoro nella società, dei diritti che gli sono connessi, delle responsabilità che comporta, ma anche di una gerarchia del valore delle diverse funzioni che spesso non riceve dal mercato il suo giusto riconoscimento.   

E allora, è legittimo ma anche terribile il sospetto che dietro la narrazione inventata o gonfiata dei 1600 km al giorno della ignara Giuseppina, ci sia il perverso tentativo di voler normalizzare una situazione che normale non deve essere; di voler affermare l’idea, malsana e malata, che pur di conservare il famoso posto fisso, sia giusto sottoporsi ‘eroicamente’ a una vita alla quale di umano resta poco.

Il treno sparisce, inghiottito dal buio , come la storia di una ragazza qualsiasi, famosa per un giorno e forse già dimenticata, che in meno di ventiquattr’ore è passata, probabilmente senza nemmeno averlo cercato, da eroina deamicisiana a bersaglio di insulti. Sic transit gloria mundi.

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