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Casalbuono in My Mind – Lo struggente “canto” di Melina Cappelli

di Melina Cappelli

Every time we say goodbye, I die a little…

Every time we say goodbye, I wonder why a little…

Le parole della celeberrima canzone di Cole Porter raccontano di una storia d’amore e mi vengono in mente ogni volta che, in partenza, imbocco la discesa che porta alla curva “del Cavallone”,  superata la quale Casalbuono è celata alla vista.

Si, perché il mio per Casalbuono è un vero e proprio amore e nel lasciarla, ogni volta che vado – sempre meno di quanto vorrei e per meno tempo di quanto vorrei – provo esattamente la struggente malinconia dell’amante della canzone che saluta l’amato.

E’ un paese, eppure la ho sempre chiamata al femminile, perché per me Casalbuono è Casa, in una strana identificazione tra la abitazione – costruita dal mio trisavolo Pietro emigrato in Venezuela ma  ritornato –  ed il paese e viceversa.

La Chiesa della Madonna della Consolazione a Casalbuono, nello scatto d’autore di Adriano Auleta.

Ogni stradina, ogni lampione, ogni curva, ogni altra casa e poi il fiume gelato, la piazzetta intitolata a mia nonna morta prematuramente, la fontana del Ponte del Re dove sgorga l’acqua più buona del mondo, il Castello, i volti delle persone che vedo da quando ero bambina, quelli che non ci sono più ma restano nel ricordo, la chiesa con gli altari donati dal trisavolo e dal bisnonno, la statua del Santo Patrono Antero e della Madonna, persino il piccolo cimitero dove regnano il silenzio e la quiete e riposano i miei antenati, sono la mia casa.

Nata e cresciuta a Napoli dove abito e lavoro, non sono definibile un’emigrante,  e già la mia famiglia di origine non lo era, eppure tale mi sento rispetto a Casalbuono e quando gli amici cittadini mi chiedono di questa Casalbuono, io dico che è il paese di cui sono originaria, perché è a Casalbuono che ci sono le mie origini, le radici che mi tengono piantata in terra.

Casalbuono innevata nello scatto che merita di Antonio Romanelli.

Casa è dove ci sentiamo bene o solo meglio, in qualche modo protetti:  “tornare a casa”, “sentirsi a casa”,  non sono forse espressioni che significano esattamente questo, un luogo dell’anima ancor prima che fisico?

E’ un sentimento profondo di appartenenza che, loro, gli amici cittadini, non possono comprendere perché in una città, sia pur amata come Napoli, non si potrà mai provare o almeno, non lo provo io.

Casalbuono illuminata nella notte

E penso di essere fortunata perché pochi possono dire di essere  in totale comunione e intimità  con uno spazio che va oltre le pareti della propria abitazione, ma abbraccia un intero paese in una dimensione atemporale che unisce un passato lontano al mio presente e, spero, al futuro di mio figlio e dei suoi cugini.

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4 comments

  1. È davvero emozionante estruggente tanto più iche ioho gli stessi sentimenti ed emozioni in quanto ho le mie radici familiare in ridente paesino ,vicino Capua,che sichiama Camigliano.Questo piccolo agglomerato di di case,stradine,piazzette,ha origini romano-latine.
    Non vi sono nato,ma vi sono nati i miei avi da circa trecento anni.
    Possiedo ancore la casa padronale,con tanti cimeli esose piccole e grandi che ricordano il passato che è sempre presente.
    Nel cortile c’è la meridiana,l’orologio a sole ove le persone fino ad un secolo fa,leggevano l’ora del giorno.
    Vie ancora il pozzo ove si attingere l’acqua per tutti gliusi,compresa quella di bere.
    Ricordo dda ragazzo di aver bevuto quell’acqua il cui sapore ancora mirabilmente ricordo.
    Vi sono ancorecarrrozze e calesse usati dai miei antenati coni relativi finimenti per ilcavallo.
    Le travature dei soffitti sono ancora tutti in legno e fuori inuna loggetta sotto la travature vu è un nido di rondini che ogni anno viene occupato dalla discendenza della prima rondine,in un mirabile einspiegable mistero di discendenza.
    Ogni volta che torno nel paesello perme è un ritorno alle origini.
    Mi sento nel contempo rinato e meravigliato dalle molte emozioni che mi assolgono.
    Non mango di visitare,ognuno può immaginare con quanta tristezza,la cappellani famiglia ,in civettulo e curato e silenzio e piccolo cimitero,i miei più cari .defunti.
    Non ho vergogna a dire che io già Misano riservato il posto,nella cappella,che andrò ad occupare quando sara’ il momenti.
    Ha ragione la Signa Melina,la vita nelle grandi città non ti può riservare tante e tale emozioni,tanti e tali sentimenti,che poi sono la essenza degli uomini.

  2. Non ho avuto la fortuna di conoscere Melina (i Cappelli con cui ho anche rapporti di parentela sono di Sala Consilina) , ma sono rimasto colpito dalla sua riflessione sul rapporto con il “paese”. Non avrei mai potuto immaginare che la sostanza del mio rapporto con il mio paese (Buonabitacolo) potesse coincidere con quello di una giovane donna.
    Fino ad ora avevo trovato assonanza tra il mio stato d’animo e quello di Cesare Pavese che ebbe a dire: “un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei, resta ad aspettarti”. Mi interrogavo, però, come potessi avere assonanza con un persona di grande intelletto, ma anche di grande propensione al pessimismo, alla rinuncia, fino al punto di arrivare all’atto estremo del suicidio.
    La riflessione di Melina mi tranquillizza molto; è positiva, aperta al futuro, rasserenante. Mi potrebbe essere nipote, mi son detto dall’alto dei miei 83 anni compiuti, e aggiungo che, se una giovane donna può guardare avanti con tanta fiducia, è doveroso che un vecchietto come me ne tragga una lezione e offra ai giovani proprio per il vissuto che si porta dietro una lezione positiva: non rassegnarsi al peggio, ma capire, studiare, essere curiosi e determinati a far sì che, proprio in virtù del forte radicamento nella terra di origine, la notte buia che stiamo vivendo possa essere seguita dalla luce.

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