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Di Pari Passo – “GNANCA NA BUSIA”: la vita di una contadina scritta su un lenzuolo

Di Rosa Mega

In un’epoca di nativi digitali, nella quale i social sono l’ombra del vissuto quotidiano che dà costante risalto alla proiezione del proprio IO, tutto ruota intorno ad un continuo racconto autobiografico. Un “cibo masticato a priori” per inseguire precisi target di riferimento. È un racconto quotidiano che, in forme e modi diversi fra loro, in fondo spesso restituisce il profondo senso di solitudine sociale nel quale siamo immersi. In questi giorni sta facendo molto parlare di sé la testimonianza di una contadina mantovana del Novecento, Clelia Marchi (1912-2006), che decise di scrivere i fatti più salienti della propria vita su un lenzuolo. Ciò che ne è scaturito è un romanzo autobiografico dal titolo “Gnanca na busia” (Nemmeno una bugia) destinato a diventare, con la ristampa uscita nei giorni scorsi dopo la prima edizione del 1986, uno tra i libri più letti del 2024.  La nuova riedizione ha come obiettivo quello di “far prevalere la volontà dell’autrice” di fronte ad alcune imprecisioni presenti nella versione del 1986, depositata nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano proprio dalla Marchi in persona.

La protagonista di questo racconto autobiografico decide negli anni della senilità di dar voce a tutto quel groviglio di emozioni, esperienze e sacrifici che ha caratterizzato la sua vita, e lo fa utilizzando 184 righe riportate con un pennarello su un lenzuolo a due piazze del proprio corredo matrimoniale. Un lenzuolo sul quale scrive a mani nude il racconto della propria vita: una testimonianza libera, sincera ed eticamente pura. “Chissà cosa ne pensate dei miei scritti; ma io li ò scritti per mè, e non per offendere nessuno, le ò scritto come il mio cuore mi dettò sempre dal vero”. Scrive così Clelia Marchi, con tutte le coniugazioni del verbo avere senza h. Con la sola seconda elementare, la Marchi offre una boccata creativa di aria fresca e di straordinaria, quanto involontaria, innovazione formale.  Marchi riassume la sua vita contadina fatta di stenti economici, servilismo verso i padroni terrieri, ruolo materno. Andando a capo solo quando lo spazio materiale del lenzuolo non la può più trattenere. Il suo racconto, offerto come un naturale sgorgare di una fontana emotiva, esprime sorellanza sincera verso le masse contadine che, come lei, hanno subito dinamiche socioeconomiche difficili e pre-democratiche in un preciso momento storico. La contadina-scrittrice riesce così ad essere autentica, con l’uso di un gergo dialettale “che ci vorrebbe un interprete per dire tutto quello che vorresti dire”: una creazione artistica fuori schema che la pone al di sopra dei pregiudizi culturali, facendo scaturire a tratti guizzi di pura poesia.

Ma “Gnanca na busia” è anche uno scorcio della vita femminile della prima metà del Novecento. Sono anni di totale invisibilità sociale delle donne, tanto da farle scrivere: “era così per tutte le donne: lavorare, mangiare, e à letto; così non anno mai potuto esprimere le sue idee… si accontentavano di ben poco…”.  La consapevolezza di genere è ben presente in questo racconto autobiografico, giacché è innegabile l’apporto fornito dalle donne ai movimenti contadini, alla ricerca del riconoscimento dei propri diritti di natura civile, nonché al progresso economico in agricoltura, attività che nell’immaginario collettivo sono sempre associate al genere maschile. Sono questi i motivi del successo editoriale di questo romanzo, un racconto autobiografico che in fondo ci restituisce l’immagine di un’Italia che fu: un seme piantato nella terra che diviene memoria collettiva di un intero Paese.

ROSA MEGA

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