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Successo di critica e di pubblico per il libro di Enrico Spinelli “Dal Madrigale alla Musica per Film. Sette note per il Vallo di Diano”

C’era il pubblico delle grandi occasioni a Sala Consilina presso l’Auditorium Comunale (Polo Culturale Cappuccini) per la presentazione del libro di Enrico Spinelli, “Dal Madrigale alla Musica per Film. Sette note per il Vallo di Diano”, pubblicato dalla Casa Editrice Laveglia&Carlone. La manifestazione si è avvalsa del patrocinio del Comune di Sala Consilina e della Comunità Montana del Vallo di Diano

Dopo i saluti del Sindaco di Sala Consilina e Presidente della Comunità Montana Vallo di Diano, Francesco Cavallone, e del Consigliere Comunale delegato alla Cultura, Vincenzo Garofalo, sono intervenuti Carmine Carlone, Rosanna Alaggio, (Università del Molise) ed Ettore Ferrigno (Conservatorio di Musica di Cosenza). Al termine della presentazione un applaudito concerto di musiche per danza (dagli archivi Carrano di Teggiano e De Vita di San Rufo) tenuto dai maestri Antonio Cimino (flauto) e Francesco Langone (chitarra). A fare da cornice all’atteso appuntamento culturale una mostra di documenti e strumenti musicali (mandolini, chitarre, partiture e spartiti, ritratti e dischi) che, su progetto di Michele Esposito, è stata allestita nell’atrio d’ingresso dell’Auditorium, con il supporto della Biblioteca comunale e con la collaborazione di privati collezionisti del territorio. Pubblichiamo di seguito una recensione al libro di Enrico Spinelli scritta per vallopiu.it da Enrico Coiro.

Di Enrico Coiro

Il rigore e la passione

Proporre una lettura di questo magnifico saggio sulla musica nel Vallo di Diano pone il lettore nella necessità di dover considerare l’atteggiamento dell’autore che assume, durante il corso di una narrazione sempre fluida e coinvolgente, un duplice atteggiamento, non dichiarato certo, ma percepibile e mai confondibile: essere da una parte il ricercatore dal metodo scientifico rigoroso acquisito in anni di studi e lavoro e, contemporaneamente, diventare il sostenitore appassionato e sincero di una realtà spesso scomoda ed a volte, almeno così sembra, dolorosa.

Il rigore scientifico ed il cambio di metodo

Il primo impatto con questo saggio-narrazione di Enrico Spinelli è dato proprio a fine del primo capitolo; il nostro autore infatti, dopo aver contestato il luogo comune dello schiacciante peso artistico («colpa di Napoli») con cui la capitale borbonica avrebbe soffocato qualsivoglia anelito di espressione musicale nel Vallo di Diano e dintorni, sbandiera una sorta di rivoluzionario pensiero, quasi un proclama: le fonti cui attingere ci sono, ma è il metodo di approccio che deve essere modificato, bisogna cioè ricorrere a strumenti critici adeguati interrogando in maniera «diversa» gli archivi, le donazioni private, gli strumenti presenti, i tentativi di attività bandistica e tanto altro materiale ancora.

In effetti (e questo si evince immediatamente dal successivo capitolo) il tentativo di trovare tracce di compositori nel Vallo di Diano sfuma inevitabilmente per la esiguità di testimonianze di scrittura musicale, come succede per le citazioni e per i riferimenti suggeriti dal «Quaderno Carrano», databile alla fine del ‘700, od anche dai resoconti dei compensi a musicisti vari che per la gran parte provenivano da contesti al di fuori del territorio; mentre invece si rivela ben più ricca di sorprese la ricerca effettuata nella presenza di strumenti musicali realizzati in loco, cioè proprio in quei territori che pregiudizialmente erano stati ritenuti «muti» da una letteratura poco attenta; in particolare l’attenzione è rivolta alla liuteria, dalla chitarra battente cilentana dei De Luccia, alle arpe viggianesi (citate addirittura da Giovanni Pascoli) dell’artigiano Vincenzo Bellizia. Però (ed è questo il dato più rilevante) su tutti emerge la figura del Magnifico Francesco Mangieri da San Rufo, costruttore e manutentore di strumenti ben più complessi come gli organi a canne, dei quali si ritrovano ancor oggi stupendi esemplari in zona e la cui attività è ben documentata, ma quasi subito interrotta con la sua scomparsa non avendo nessuno dei suoi discendenti raccolto una continuità in tal senso.

E San Rufo ritorna prepotentemente nel terzo capitolo, ove si narra, dopo l’unità d’Italia, la circostanza davvero interessante, nei salotti di casa De Vita, accanto al capostipite Michele De Vita che si dilettava nella pratica musicale, della presenza di una figura di spicco nel panorama culturale di un borgo così lontano dalle grandi realtà cittadine: il musicista Enrico Sebastiani, cui si deve la scrittura autografa dei quaderni datati 1863 e ’64, forse imparentato con la grande famiglia dei Sebastiani (Ferdinando; Ernesto e Carlo) compositori, strumentisti e direttori d’orchestra a Napoli ed in altre grandi città italiane ed europee. L’importanza di questa presenza prestigiosa è legata proprio all’attività didattica del musicista, al quale si devono le trascrizioni, ovviamente in forma semplificata e limitata a pochi strumenti essenziali, di una notevole quantità di musica da ballo, strumentale ed operistica, trascrizioni definite dal nostro autore come «schegge di teatro, avidi assaggi del melos italico, lampi della grande musica». Si citano con sorpresa i nomi di Verdi e Bellini, associati ai librettisti o ai grandi autori di fama internazionale ispiratori delle storie musicate, come Hugo, Sumet, Gutierrez, il tutto commentato con parole come «materia esplosiva in un paese povero e tradizionalmente regolato da un assoluto controllo religioso di tutto il corpus sociale».

Ed è proprio qui che il linguaggio di Enrico Spinelli comincia a trasformarsi: da rigoroso e scientifico ricercatore di fonti archivistiche e documentali, ad entusiastico e commosso scopritore di una realtà per tanto tempo rimasta occultata da una pregiudiziale e strana limitazione della ricerca. Quivi si parla infatti dei primi pianoforti giunti nelle nostre zone, come il Mach a coda giunto a San Rufo l’undici ottobre del 1864 e studiato da Donna Serafinella Marmo, unitamente ad altri componenti di famiglie benestanti uniti in un progetto definito «socialmente ambizioso», di una trasformazione che, partendo da una situazione arcaica ed arretrata, andava improvvisamente migrando verso orizzonti illuministici e forse anti-clericali, soprattutto ad opera della famiglia Marmo e del suo esponente più importante, il dottor fisico Daniele, e proprio grazie a quella «straordinaria iniezione musicale» che fece da apri-pista ad un mondo più romantico e passionale, cui si associava anche il collezionismo del De Vita documentato dall’acquisto di numerosi strumenti musicali.

Interessanti sono poi i rimandi ad un successivo repertorio «più aggiornato» che inevitabilmente connota una diversa coloritura politica ed una commistione ideologica che solo la musica poteva conciliare. Ed a questo punto subentra una disillusione dovuta allo spegnersi in pochi decenni di quell’entusiasmante tentativo di riempire il silenzio musicale del Vallo di Diano, quando anche il pianoforte di donna Serafinella «ammutolì per sempre».

Nel quarto capitolo, si narra di una sorprendente scoperta: l’archivio post-unitario della famiglia di Enrico Pinto di Padula; questi, infatti, dotato di curiosità intellettuale e di spirito borghese, raccolse un enorme patrimonio librario, nel quale la presenza di saggi critici musicali e partiture stupisce ancora oggi per la presenza di nomi come Verdi, Wagner, Mascagni, Martucci e tanti altri. Anche in questa famiglia fu una presenza femminile, la maestra donna Sabina Sisto, a determinare l’acquisto di un pianoforte, un Boisselot da salotto, con conseguente trasformazione della vita cittadina in un susseguirsi di periodici incontri musicali che videro la partecipazione delle famiglie Romano, Sarli e in particolar modo da una coppia di nobili napoletani decaduti, il marchese Imperiali e la consorte, amanti della musica e del bel canto.

In effetti l’Inventario del 1981, ricostruito da Enrico Pinto Junior (nipote diretto), pur essendo riferito alla sola parte da lui ereditata dal nonno, mette in luce una ricca collezione di letteratura tra classici italiani, latini e greci, scrittori europei nei più svariati campi, dalle scienze alla geografia, dall’arte alla filosofia e, come detto, alla saggistica musicale ed al ricco repertorio di partiture che spazia non solo nella produzione classica già citata, ma anche nel campo della romanza da salotto e della canzone napoletana.

L’orgoglio di un riscatto

Nel capitolo quinto si approfondisce con tenacia la conoscenza capillare della musica praticata nei salotti della nuova nascente borghesia, a Polla, a Sala Consilina, a Monte San Giacomo, soprattutto nel Novecento, con ampie incursioni nei generi musicali di ogni tipo, forse anche in maniera incoerente e disordinata, ma certamente vivace e partecipata. Però l’attenzione è sempre rivolta a «Lui», Giuseppe Verdi, persona di innovazione straordinaria che, con la complicità del proliferare della presenza del pianoforte, strumento definito «nave rompighiaccio», mette in crisi il repertorio liturgico imposto da secoli come esclusivo veicolo di diffusione della musica. Ed allora le riduzioni per pianoforte delle opere più famose di Verdi, soprattutto la scandalosa Traviata, nonché romanze e canzoni, costituirono il nuovo orizzonte della cultura musicale che oggi è alla portata di tutti. Ma viene in pari tempo menzionata una memorabile esecuzione di strumentisti prigionieri cecoslovacchi che, nel 1917, diedero vita ad un concerto di musiche di Smetana, Verdi, Dvořák, Puccini, Bizet e Beethoven nella Certosa di Padula. Segue infine una ricca carrellata di nominativi di quante persone nel Vallo di Diano, ieri ed oggi, si siano occupate di musica come esecutori e come compositori e non manca il ricordo del compositore Francesco Saverio Mangieri, ed il rimpianto commosso della figura Nestore Caggiano, astro nascente e promessa della musica sinfonica, stroncato in giovanissima età da un’epidemia.

Nel capitolo sesto, viene infine presa in considerazione la vicenda interessantissima delle radio libere nel Vallo di Diano, in particolar modo il tentativo dei fratelli Cantilli che da Radio Padula inserirono un coraggioso programma di ascolto (in mezzo alla musica leggera imperversante) di musica classica strumentale; tale programma, di cui si riporta per intero il testo di un commento sulla nona sinfonia di Beethoven, con l’uscita di scena del Cantilli pareva dovesse finire, ma fu riacciuffato proprio dal nostro autore il quale, con la nuova serie di trasmissioni «Il flauto di Dioniso», intraprese il difficile compito di divulgazione della musica colta, ottenendo, a suo dire, risultati concreti minimi sul pubblico, soprattutto se paragonati ai successi ottenuti dalla presenza di orchestre e musicisti di fama internazionale nella Certosa, ma fecondi sul piano dell’arricchimento personale, perché fu proprio dalla necessità di divulgazione che nacquero le frequentazioni dei corsi di Storia della Musica, gli incontri col musicologo Gioacchino Tommasi Lanza, l’estensione della conoscenza ad un vastissimo repertorio sinfonico e… con un accorato rammarico: aver trascurato la stessa idea di divulgazione, ottenibile attraverso brani più semplici, più abbordabili, più comprensibili: un ripensamento questo che è segno inequivocabile di intelligenza critica nelle persone sinceramente animate dalla passione.

Di straordinario impatto è il capitolo settimo, l’ultimo, prima dell’elencazione delle fonti documentali e delle ricerche effettuate, in cui Enrico Spinelli riesamina il canto popolare ripreso e rielaborato da studiosi e musicisti di levatura importante, ripercorrendo le trame cinematografiche e le saghe popolari, dalle lamentazioni di Isabella Villamarino al «quant’è bello lu murire acciso», e che costituisce, se mai ve ne fosse stato bisogno, la conferma dell’altissimo livello dell’analisi filologica dei brani esaminati con ampie incursioni nella musica del passato, in cui si disserta sull’attribuzione corretta ai personaggi o sulla verità del senso ultimo di versi che hanno per lunghi anni generato equivoci tra martiri, santi e briganti.

La narrazione appassionata

Vale a questo punto la pena di ritornare al quarto capitolo, quando l’attenzione si era spostata nella terra di Padula, dove nell’Inventario della famiglia Pinto fanno capolino nomi come: Bach, Beethoven, Chopin e Schumann, in maniera sorprendente, così come riferisce lo stesso autore, in quanto «a Padula e nel Vallo il Risorgimento – l’epopea più popolare e musicale dell’Ottocento – fu senza musica», dolorosa e amara constatazione di quanto episodi tragici, come l’eccidio dei Trecento, siano passati nel silenzio totale, quando «lo strazio di quel fatto non conobbe l’onore del pentagramma», anzi, con la sepoltura in una fossa comune e con la complicità del clero, si veniva restaurando nel Mezzogiorno l’oscurantismo religioso unitamente ad un’arretratezza atavica. Strana a questo punto diventa la sensazione di chi legge questo saggio di intravedere fra le righe la scomparsa dell’entusiasmo per i ritrovamenti e per il riscatto della nostra terra, per far posto ad un dolore profondo, ad un rammarico palpabile, alla constatazione di un’occasione perduta per sempre.

Non è infatti senza delusione che, citando le musiche composte da Roberto De Simone per il film di Lorenzini del 1975, Enrico Spinelli lamenta un ethos sonoro artificiale e da laboratorio, in stile tipicamente partenopeo, dal quale la nostra musicalità fu inesorabilmente esclusa, così come nelle successive raccolte del 1973, dove una ponderosa ricostruzione di canti regionali metteva fuori dal novero il Vallo di Diano, confermandolo terra senza musica.

Ma, ritornando ai tentativi esperiti in zona per la diffusione della musica nazionale operistica e/o patriottica, l’autore è costretto a constatare ancora che nel Vallo, nell’epoca dell’Ottocento post-unitario, le bande musicali o le formazioni corali, tanto importanti in altre regioni italiane, furono del tutto assenti, con l’unica eccezione di Sala Consilina (definita «massonica») nella quale gli amministratori locali diedero vita ad un esperimento naufragato in pochissimi anni. Ed è da queste osservazioni, così come dalle notazioni riguardanti la diffusa abitudine di denominazione di strade o piazze, da cui è sempre in maniera assurda escluso il nome di Giuseppe Verdi, che si percepisce la delusione cocente dello studioso, posto di fronte al dato di fatto di un colpevole silenzio da parte di chi avrebbe potuto e dovuto intervenire.

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