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Maddalena – L’esordio letterario di Angela D’Alto su Vallo Più

di Angela D’Alto

Maddalena l’avevano chiamata così perché era nata il 22 luglio. In realtà Rosina aveva partorito già da una settimana, ma Rocco non aveva avuto tempo di andare all’anagrafe comunale prima di quel giorno. L’impiegato gli fece gli auguri , era la quarta figlia, prima femmina dopo tre maschi. Pure gli altri tre erano nati d’estate, e Rocco era contrariato assai per questo. Doveva lasciare le vacche e le masserizie in montagna e scendere al paese, e quando tornava trovava sempre qualche ‘male servizio’, perché il fratello non aveva la sua stessa cura per le bestie.

Quella mattina faceva caldo, un caldo che levava l’aria. Nella stanzetta dell’ufficio anagrafe batteva il sole dalle sei del mattino, e pure le carte che stavano sulla scrivania dell’impiegato parevano sudate. 

‘Don Mimì, la voglio chiamare Fiore’ disse Rocco d’un fiato, come se avesse avuto paura di non avere più il coraggio di ripeterlo.

Don Mimì era molto rispettato in paese. Il padre era stato l’ultimo Podestà, e poi a tutti poteva servire di andare al comune a chiedere una cosa, e lui ne sapeva di leggi. Così dicevano le persone. Teneva tanti libri , che levavano ancora di più l’aria in quella piccola stanza. Ingombranti e polverosi, accatastati su degli scaffali di legno tarlato che ogni tanto scricchiolava. 

Don Mimì smise di scrivere con la sua Olivetti. Il suono ritmico dei tasti si interruppe, e il silenzio pervase la stanza , galleggiando nel caldo e nell’odore di legno vecchio e di carte. 

‘Don Mimì, la voglio chiamare Fiore’, ripetette Rocco facendosi coraggio. 

I due si guardarono in silenzio. Rocco sapeva che i nomi ‘strevzi’ non li volevano al comune, e non li voleva il prete. Ma Fiore non è un nome ‘strevzo’, si disse anticipando mentalmente la risposta che avrebbe dato alla sicura obiezione. Sono belli i fiori, aveva pensato Rocco. Quando era tra gli animali, in alta montagna, dove la linea dell’orizzonte si fa lontanissima e ogni altro mondo possibile scompare, si incantava a guardarli, ad annusarli, e gli pareva incredibile che nella sua vita fatta di vacche e di sterco e di passi sempre più stanchi comparissero quelle macchie di colore e di profumo così delicate, come una una sottoveste di seta tra abiti lisi e sformati.

Foto d’autore di Mariano Cozza

I fiori sono pure coraggiosi, si era detto. Non hanno paura di nascere tra rocce spoglie, nel letame, tra le zolle. I fiori spuntano e se ne fregano , e urlano la loro bellezza e purezza che è più forte delle montagne brulle e dello sterco di vacca e della neve e del vento e del sudore buttato su quelle terre da Rocco e da suo padre e da tutti i compagni loro.

Non è cosa’, disse Don Mimì secco. 

A Rocco le parole si strozzarono in gola. Fece per rispondere, ma la vista gli si era annebbiata, il caldo lo soffocava levandogli l’aria. Tossì per prendere fiato, provò a ricordare il discorso che teneva pronto sui fiori e pure una cosa in latino della Bibbia che gli aveva detto Donato all’osteria, ma era tutto nero, un enorme, caldo e profondo baratro buio. Don Mimì guardò il calendario e disse ‘Maddalena. Oggi è Santa Maddalena’. Rocco tacque , poi fece cenno di sì col capo, e ripetette atono: Maddalena. Si deve chiamare Maddalena. 

Quell’estate passò in fretta, e ne arrivarono altre, sempre uguali. Maddalena era cresciuta , e i suoi tredici anni erano un tempo infinito, sospeso, paralizzato nei gesti sempre uguali della vita lenta del paese, tra il fiume, la casa, la piazza attraverso la quale passava solo se c’erano i fratelli ad accompagnarla, altrimenti pareva brutto. C’erano dei periodi in cui si spostava in montagna, per cucinare e lavare, e occuparsi di suo padre e i fratelli.

Rocco continuava a lavorare in montagna, insieme ai figli maschi e al fratello che non si era sposato. Attraversava sicuro gli stessi sentieri, ormai stanco anche a causa di una gamba malata. Lo avevano azzoppato con un colpo di fucile calibro 12 durante una battuta di caccia . Non era mai guarito completamente, e anche dopo l’operazione quella maledetta gamba continuava a dolergli. Non aveva voluto denunciare nessuno: era stato un incidente, e quelle cose in montagna capitavano. 

I fiori non li guardava più da anni. Trascinava i suoi passi pesanti davanti a quelli dei figli, e quando il male alla gamba era forte, stringeva i denti e si mordeva il labbro fino a farlo sanguinare. Imprecava a mezza voce, e zoppicando continuava il cammino, e ogni tanto sperava che la terra si aprisse davanti a lui per inghiottirlo per sempre. 

Foto d’autore di Mariano Cozza

Quel pomeriggio c’era la processione, al paese. Rosina aveva appeso al balcone le lenzuola buone e si era avviata in chiesa, raccomandando a Maddalena di raggiungerla una volta rassettata casa. 

Quella figlia sua, aveva pensato, le dava troppi pensieri. Aveva come qualcosa di malato dentro.

Teneva come una rabbia in corpo che la consumava. Un sentimento antico, remoto, perso tra le lune di montagna, figlio della terra nuda e assetata. Una specie di buco che la divorava e diventava sempre più grande e sempre più nero. Nessuno sapeva perché. Nemmeno lei lo sapeva. Era strana la figlia di Rocco e Rosina, dicevano in paese. Tiene certi occhi così grandi e neri che quando ti guarda ti trapassa da parte a parte come una lama che si infila nella carne frolla degli animali morti. Se fosse stato un colore, Maddalena sarebbe stato il nero. Cupo, profondo, lucido, infinito. Nero di nuvole gonfie di pioggia, di legna consumata da una fiamma violenta e diventata carbone, di sangue rappreso in un grumo pronto a scoppiare sulle vesti bianche delle spose. 

Quel pomeriggio di Maggio, Maddalena in chiesa non arrivò. Una volta a casa, Rosina prese a chiamarla, ma la casa era vuota, e la mezza porta spalancata. Tornerà, pensò pragmatica tirando dentro le lenzuola buone, ancora tiepide di sole. Maddalena non tornò. La cercarono invano, tra vicoli e carrare, anfratti di montagna e boschi. Qualcosa pareva averla inghiottita, come se quello stesso buco che teneva dentro l’avesse risucchiata fino a farla scomparire. Le guardie avevano detto che Maddalena se ne era scappata. Allontanamento volontario, così lo avevano chiamato. 

Rocco lasciò la montagna per sempre. Il fratello se ne era andato all’estero in cerca di fortuna. Il bestiame lo affidò ai figli, e non uscì mai più di casa. 

‘A Rocco la gamba gli fa troppo male’ diceva Rosina ai paesani, che però non le credevano. Lo sapevano che era per quella figlia inghiottita nel vuoto che Rocco era diventato un fantasma.  Maddalena nessuno la nominò mai più. 

Erano passati quasi sei anni da quella sera, e l’odore di incenso forte che quasi stordiva galleggiava tra le vie del paese sulla processione del Venerdì Santo. 

C’erano tutti: il Sindaco, il dottore, il maresciallo con i due carabinieri nuovi, ‘ i forestieri’ che arrivavano dal nord. Don Mimì, che era andato in pensione da poco, camminava accanto a un gruppo di uomini pronti a dare il cambio ai portatori della statua di Gesù Morto. 

Foto Mariano Cozza

“In manus tuas Pater, commendo spiritum meum, in manus tuas Pater, commendo spiritum meum”. Le voci scoordinate , alcune incerte altre acute e sicure, erano soprattutto di donne. 

In manus tuas Pater, un tonfo sordo, un corpo pesante a terra, e un silenzio greve e sospeso. 

‘Don Mimì, rispondete! Aiuto, dotto’ venite, è caduto all’improvviso’ , urlò uno degli uomini che gli camminava accanto. 

Il medico provò a soccorrerlo, ma appena chinatosi su di lui , un rivolo rosso iniziò a colare da dietro la testa dell’uomo ormai morto. Sangue , sangue vivo, che strisciava sulla polvere della strada sterrata. 

Il foro di proiettile all’altezza della base del cranio si trasformò in pochi secondi in una fontanella, una piccola bocca aperta che vomitava forte rosso vermiglio. I portatori avevano adagiato a terra la statua di Gesù Morto, e quel corpo di legno, scheletrico e martoriato, con gli occhi rivolti verso l’alto, giaceva accanto a quello di carne di Don Mimì, grasso e sudato. 

Nessuno parlava. 

Il serpente di folla, ordinata e silenziosa, che strisciava per le vie del paese, si smebrò in mille pezzi. Alcune donne continuavano a pregare. “In manus tuas Pater, commendo spiritum meum, in manus tuas Pater, commendo spiritum meum”. 

All’angolo del vicolo, la sagoma di una giovane donna ossuta e vestita di nero, col capo coperto e i piedi scalzi, immobile. A Rosina il cuore scoppiò nel petto. La riconobbe subito, Maddalena. Una visione spettrale e inquietante, un fantasma tornato dal buco nero che l’aveva inghiottita. La terra l’aveva risputata fuori. Attraversò quei pochi metri che la separavano dal capannello di uomini intorno al corpo di Don Mimì , mentre un silenzio incredulo e sbalordito accompagnava i suoi passi nudi. Qualcuno la riconobbe, ma solo Rosina capì. Capì con l’istinto di chi quella creatura malata l’aveva partorita , espellendola dal proprio ventre come un pezzo guasto, come un dolore, come un male che ti cresce dentro. Maddalena si fermò, osservò inespressiva i due corpi morti, portò la piccola pistola alla tempia e fece fuoco . 

“In manus tuas Pater, commendo spiritum meum, in manus tuas Pater, commendo spiritum meum”. 

Maddalena giaceva accanto a Don Mimì e alla statua del Gesù Morto. Scarnificata, nera, disperata. 

Nelle ore successive, i corpi furono portati via. Rosina identificò quella larva senza vita ma ancora dolente. ‘È lei. È Maddalena’.

Non si diede una spiegazione a quel gesto. Che spiegazione poteva esserci al male? 

‘Era malata’, ripetette ai carabinieri. ‘Sarà messa in una fossa comune’, le comunicarono freddamente. 

La chiave era davanti alla porta di casa come sempre. Rosina aprì, e prese a chiamare Rocco. Avrebbe dovuto dirglielo. Tanto, Rocco ormai era come murato vivo, e non si curava di nulla. La vergogna per quella figlia insana lo aveva già ucciso anni prima, si disse Rosina.

Accanto al camino spento , Rocco sedeva in silenzio sulla solita sedia impagliata e verniciata di azzurro. 

Una bimba  vestita di giallo, scalza, con gli occhi e i capelli neri, era in piedi accanto a lui. Rosina riconobbe quello sguardo tagliente, e le mancò il respiro. 

Erano lunghe le notti in montagna. L’odore di fieno, profondo e caldo, era rimasto a lungo nelle narici di Maddalena e dei suoi pochi anni. Come le mani di suo zio, ancora sporche di bestiame, ruvide, doppie. E il suo corpo pesante, il respiro, e quel dolore acuto che l’aveva fatta sanguinare. E il sangue suo si era mescolato allo sterco delle bestie e alla paglia del giaciglio che le avevano preparato. Dopo la prima volta, Maddalena non sanguinò più. Chiudeva forte gli occhi e aspettava che finisse.

Una notte, aveva imbracciato un vecchio fucile e aveva fatto fuoco . Solo dopo aver esploso il colpo, con le braccia che le tremavano ancora per lo sforzo, si accorse che la sagoma nell’ombra non era quella di suo zio ma di suo padre. 

Lo aveva ferito a una coscia. Piansero a lungo, quella notte. ‘Lo ammazzo, Maddale’, lo ammazzo io’, le disse. Ma era già scappato, e non ne seppero più nulla. 

Da quella notte, la vita di Rocco fu solo dolore e senso di colpa. Per tutto ciò di cui non si era accorto, per quella figlia che aveva condannato all’infelicità. ‘Io ti volevo chiamare Fiore. Perché nei nomi nostri ci sta il destino, Maddale’. E tu dovevi campare come i fiori nei prati, i fiori di montagna, che nascono nonostante tutto, e nonostante tutto profumano e colorano pure le rocce più brulle. Mi dovevo impuntare, non lo dovevo sentire a Don Mimì, quel giorno.”

Rocco e Maddalena non ne parlarono mai più. Non seppero nulla i fratelli, e nemmeno Rosina. La rabbia continuava a consumarla, e dentro il corpo la furia cresceva, insieme al frutto di quelle notti di fieno caldo, di dolore e silenzi. Andò’ via col suo buco nero e il grembo gravido. Via da quel paese che aveva negato la vita a Fiore per Maddalena. 

Nella piccola cucina, Rosina fissava Rocco in silenzio. La piccola alzò gli occhi e incrociò lo sguardo della donna. ‘Come ti chiami, tu?’ ‘ Fiore. Si chiama Fiore’, rispose Rocco, sorridendo.

Foto di Mariano Cozza
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5 comments

  1. Bellissimo racconto…breve e molto intenso. Dalle prime parole ti prende quella voglia di leggere e di scoprire come prosegue la storia e subito dopo la nostalgia che sia già finita… Complimenti

  2. L’ho letto in un attimo . Mi ha presa profondamente. Questo genere di atrocità esiste ancora. Sì. Nelle nostre comunità. È anche tristemente attuale.
    Brava Angela, bravissima, hai reso pienamente l’inesorabile dramma che il destino impone (ancora oggi, ripeto) all’innocenza.
    Adoro il finale della storia.
    Fiore riscatterà la madre?!

  3. Angela, è starordinaria la tua flessibilità: dalla gestione di una Comunità con tutte le sue sfaccettature alle diatribe amministrative, alla complessità tutta italiana di riuscire a realizzare anche le iniziative e i cambiamenti più modesti senza dover superare immani ostacoli. Ora ci metti anche la passione per il racconto e l’impresa è stata ardua perché hai toccato un tema che è parte del conosciuto, ma non detto. E, bada che non tocchi una materia che appartiene solo a un mondo compresso dalla fatica e dalle difficoltà di vita; tocca un certo modo di vivere che per troppi secoli ha inquinato la vita nelle zone rurali e non solo. Se non lo hai già fatto, ti consiglio di leggerti uno dei libri più belli di Dacia Maraini, “la lunga vita di Marianna Ucria”; parla del destino di una fanciulla di una famiglia principesca palermitana stuprata da uno zio, uomo stimato, al di fuori di ogni sospetto, profondamente religioso; uno di quei fedeli che Papa Francesco definisce clericalizzati e che giustamente considera un pericolo per la fede e per la società.
    Continua questa nuova esperienza; d’altro canto, sei figlia di tua madre e i geni …non ti mancano

  4. Gentilissima Angela, ho letto con grande attenzione ed immenso interesse il tuo scritto, che denuncia non solo il più infamante delitto perpetrabile contro una donna, che tu descrivi con sommo tatto e perizia letteraria, compiuto,tra l’altro, nel posto che riteniamo più sicuro e inviolabile come il nostro nucleo familiare, ma che le statistiche indicano, oggi, come il primo sito in cui accadono tali misfatti, ad opera di familiari e conoscenti stretti. Il tuo racconto lo interpreto come una denuncia verso tutte le forme di violenza:quella esercitata da don Mimi, in nome di una presunta superiorità culturale e sociale, tanto da non permettere a Rocco di esercitare il suo elementare diritto. La violenza esercitata dal più forte fisicamente sul più debole, come quella esercitata dallo zio e qui potremmo fare un lungo elenco di esempi. Poi la violenza esercitata dalla vendetta ,fredda, calcolata, premeditata, che si è nutrita a lungo di rancore di giorno e di incubi la notte tanto da distruggere ogni filo di umanità e di pietas,che in ogni modo deve pur sopravvivere. Poi ho chiuso gli occhi per meditare e forse perché influenzata dal tuo modo di descrivere per immagini o forse perché influenzata dalle belle foto, la mia mente si è riempita di immagini, come sottoposta alla proiezione di tante diapositive:ho visto, così, le nostre belle montagne, con le vallate piene di ricchi pascoli,tempestati da un numero infinito di fiori profumati e spesso rari, come le orchidee del nostro Cervati. Ho rivisto volti di uomini e donne scavati dal cesello del sole, del tempo, della fatica, di sentimenti torbidi ed inesprimibili, come i volti degli antichi greci, raccontati da Omero e dagli autori tragici che affollavano le pagine dei nostri libri del liceo:ho rivisto, così, Priamo ed Ecuba piangere i tanti figli trucidati da Achille, primo fra tutti Ettore, coperto di polvere e sangue. Lo zio, però mi è apparso non come uomo, ma come un satiro, dalle sembianze di un capro, nel volto e nelle zampe, mostro che si aggirava tra i boschi, alla ricerca di vittime. Poi ho ho visto Maddalena, dagli occhi neri e profondi, con il bel volto incorniciato da una nuvola di riccioli neri, tipici delle bellezze mediterranee. Mi è apparsa come una ninfa dei boschi o come una divinità pagana, capaci di amori travolgenti o di ire funeste o di vendette terribili
    Ho rivisto, dunque Circe, Calypso capaci di far perdere a cotanti eroi gli affetti più cari e le radici più profonde. Ho rivisto la terribile ira e vendetta di Diana nei confronti di Atteone. Infine la piccola Fiore,che rappresenta l’eternità, ieri, l’oggi, il domani. Rappresenta l’eternità della natura, che prosegue incurante di tutto; rappresenta l’eternità dell’amore puro, innocente, capace di operare miracoli, come quello di risvegliare dal torpore e far sorridere il vecchio nonno. Mi fermo perché non voglio tediare ulteriormente. Comunque grazie per avermi fatto fare questo bagno nella classicità a me tanto cara e presente tra noi più di quanto crediamo. Aspetto con ansia un tuo nuovo lavoro:complimenti vivissimi e ad maiora!
    Angelo Tepedino
    P.S.:posso permettermi di suggerirti di dedicare questo lavoro “a tutti quelli che resistono, nonostante tutto “,sulla scia della filmografia di Giuseppe Tornatore? Grazie!

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