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Il lavoro tra quarta e quinta rivoluzione industriale (di Vincenzo Mattina)

di Vincenzo Mattina *

Precario, fragile, povero, nero, schiavizzato; sono questi gli aggettivi che seguono il sostantivo lavoro ogni volta che se ne parla, da qualche anno a questa parte. Marcano una negatività, che esclude ogni valutazione di merito a sostegno del rifiuto sociologico e ideologico all’apposizione di un termine ai rapporti di lavoro. Spiegano il crollo delle aspettative, che un tempo erano crescenti, mentre oggi sarebbero irrimediabilmente decrescenti; giustificano l’atteggiamento dei neet (Not in education, employment or training), i giovani che non studiano, non lavorano, non si addestrano.

Quanti sono affezionati al vecchio paradigma del salario variabile indipendente lo vanno riattualizzando nella versione moderna del lavoro variabile indipendente, ipotizzando situazioni semplici e a portata di mano: divieto generalizzato di qualunque tipo di rapporto di lavoro a tempo determinato, se non come fase di accesso ai rapporti stabili e sicuri, riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, elargizione di premi fiscali come dote ai capitalisti old e new stile che assumono a tempo indeterminato.

Tutte soluzioni focalizzate sull’emergenza; come tali di per sé comprensibili, ma con il respiro corto, perché ininfluenti sul medio, lungo termine. Di respiro apparentemente più lungo è la corrente favorevole alla ristatalizzazione dei servizi per il lavoro, iniziato con l’annunciato, ma non realizzato, rilancio dei Centri per l’impiego (CPI), nonostante la trasfusione di energia generata con l’arruolamento di 2978 navigator, giovani disoccupati abilitati con corsi effimeri a una funzione più grande di loro, ideata dal prof. Mimmo Parisi, docente dell’Università di Stakerville nel Mississippi, tenuto per un paio d’anni alla guida dell’ANPAL.

L’anima di tutta la strategia avrebbe dovuto far perno su azioni formative strutturate in funzione dei fabbisogni certi di vecchie e, soprattutto, nuove competenze, la cui ricognizione implica l’individuazione e rappresentazione costanti dello stato dell’arte di ogni comparto economico e la disponibilità di strutture e tecnologie formative le più aggiornate possibili. Gli esiti sono stati al disotto di ogni pur pessimistica previsione, per via dei poteri concorrenti tra Stato e Regioni, per la debolezza strutturale dei CPI, per l’inadeguatezza del personale stabile, delle procedure e degli strumenti di lavoro.

Si sarebbero potuti ottenere dei buoni risultati, se fossero state coinvolte le Agenzie per il lavoro (APL) per agire in collaborazione con i Centri per l’impiego e, perché no, con i loro navigator, ma il Ministro per il lavoro dell’epoca e i suoi successori, Nunzia Catalfo e Andrea Orlando, hanno sempre rigettato tale possibilità, considerando l’istituto della somministrazione di lavoro niente di più che una forma di caporalato legalizzato, i primi due per incompetenza, il terzo per rifiuto ideologico.

Sotto l’etichetta del lavoro fragile e povero c’è la massa di prestazioni che vengono fornite in maniera del tutto discontinua con retribuzioni ad ora, con piccoli incrementi a risultato, imposte dai datori di lavoro secondo le loro convenienze. È la condizione dei cosiddetti riders, anglicismo per indicare i nuovi connotati di un mestiere antico, quello del camminatore, con la differenza che quest’ultimo era un pubblico dipendente sia pure di basso grado, che recapitava scartoffie, mentre i suoi successori sono dei lavoratori occasionali, addetti alle consegne a domicilio di prodotti alimentari solidi e liquidi e di pacchi di varia natura, utilizzando bici e ciclomotori, talvolta scendendo e salendo da furgoni per la consegna a passo sostenuto delle merci più varie.

L’occasionalità di queste prestazioni è del tutto evidente, ma, non essendo formalizzata secondo i dettami legali, si traduce automaticamente in lavoro nero, perché tempo, salario e coperture previdenziali sono esclusivamente nella discrezionalità del datore di lavoro.

Sempre sotto l’etichetta della fragilità si possono catalogare anche le esperienze lavorative integrative di taluni percorsi scolastici o alla conclusione degli stessi; le prime come fase di orientamento propedeutico alla scelta della qualificazione accademica o professionale, le seconde come ingresso motivato nel mondo del lavoro; tutte buone pratiche in sé, che in taluni Paesi europei sono obbligatorie.

Vincenzo Mattina

(1 – continua)

*Già parlamentare italiano e europeo, già Sindaco di Buonabitacolo, dirigente sindacale della Uilm e della Flm.

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