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Con-Tatto – I riti culinari (e i proverbi) Pasquali nel Vallo di Diano: dalla “pizza chiena” alla… polvere di grillo?!

Di Geppino Giuseppe D’Amico

Le feste, si sa, vengono vissute all’insegna della tradizione. Ai riti religiosi della settimana santa che si svolgono in Chiesa si aggiungono quelli celebrati in tavola. Da secoli, infatti, anche il cibo condiziona la nostra vita. Si passa dalla cucina tipica del tempo di penitenza (Quaresima, Avvento e Venerdì Santo) a quella del tempo di festa (si inizia a Carnevale e si continua fino a Pasqua).

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Anticamente in tempo di penitenza non solo non si mangiava carne, alimento già raro nelle case dei meno abbienti, ma si osservavano forti limitazioni nell’uso del cibo, ai limiti del digiuno. La festa, invece, era occasione per scialare, ma sempre in relazione alle proprie disponibilità. Era consuetudine per le donne preparare il cibo con largo anticipo rispetto alla cena in modo da avere la possibilità recarsi in chiesa per partecipare alle funzioni religiose. Vi era una stretta connessione tra il mangiar bene e la festa, perché, come rimarcava un detto:

  Quannu la panz’è cchjina bbona, // tannu si cand’e tannu si sona.
[Quando la pancia è bella piena, // allora si canta e allora si suona].

Se invece:

 
“la panza è vacanta, nun se sona e nun se canta”.

Una strofetta di Monte San Giacomo ci ricorda quel clima:

  Vieni, Pasqua, e bbieni currennu, // ca li bbecchi vannu carennu:
li ggiùvan’ pp’ s’apparà //  e li bbecchi pp’ ttupp’tijà.
[Vieni, Pasqua, e vieni correndo, // ché le vecchie vanno cadendo: //
i giovani per soddisfare la fame / e le vecchie per battersi il petto (in segno di penitenza)].

L’espressione “contento come una Pasqua” è dovuta anche alla felicità del cibo dopo un periodo di penitenza o astinenza.

A Padula il venerdì santo era tradizione mantenere l’astinenza consumando pizza di cipolle, una torta salata ripiena di cipolle fritte solo con condimento vegetale, acciughe, capperi e olive.

La Domenica delle Palme in molti paesi del Vallo di Diano e in particolare a Teggiano ancora si preparano i “parmarieddi”, gnocchi più piccoli rispetto ai tradizionali “cavatieddi”, chiamati così perché fatti coi polpastrelli, che sono le “palme” delle dita.

Ma cosa resta delle tradizioni di un tempo? Per esempio: quanti preparano “pizza chiena” a Pasqua?  La “pizza chiena” era la sublimazione della semplice pizza di farina di grano: era di per sé espressione di abbondanza. Si preparava durante la Settimana Santa, a contrasto con l’atmosfera triste della passione.  Si cominciava alcune settimane prima a conservare le uova, perché l’uovo, simbolo della vita, significava resurrezione già prima del Cristianesimo (si pensi, ad esempio, alle uova trovate nelle tombe precristiane riportate alla luce a Pontecagnano).  Oltre che di uova (sbattute o lessate e tagliate a fette) nel ripieno, tra le due sfoglie di pasta, si mettevano toma o ricotta e salsiccia a pezzettini. C’era anche l’usanza di farla a forma di colomba, ma era comunque un rustico. Si consumava il lunedì in albis o l’ottava di Pasqua, di solito su un santuario di montagna, insieme col pizzicoccu, fatto apposta per i bambini (in qualche paese era fatto a forma di bambino e si chiamava ninnu).

A Sant’Arsenio si confezionava il “tortano” detto anche “pizzicocco” e veniva offerto ai ragazzi; era a forma di una grossa ciambella su cui venivano collocate alcune uova. Alle ragazze invece veniva offerta la pizza palomma, a forma di grossi pesci o di una torta terminante in due code, anche questa decorata con le uova. Sempre in occasione delle festività pasquali si preparavano i taralli, bianchi, chiamati anche vìscuòtti o vuscuòtti, fatti a forma r’ ossa ri muorti, da cui il nome, impastati solo con acqua, farina e sale, o con le uova e lo zucchero. Una varietà più elaborata di vìscuotti, solo con uova e farina veniva preparata a Montesano, e si ricoprivano di naspro.

La tradizione di Monte San Giacomo prevedeva la pupa, lu turtanieddu, con pasta di pane a forma di ciambella e un uovo sodo al centro, come si usa in Grecia e nelle isole.

Dopo la Santa Pasqua, il giorno dell’Ascensione si sogliono cucinare li tagliulini ccu lu latti, tagliatelle fatte in casa, particolarmente sottili e strette, condite con latte, zucchero, noce moscata e cannella. Si dice che l’usanza ricordi l’Ascensione del Signore in una nuvola candida, di latte. È tradizione che in questo giorno, consacrato alla Madonna del Latte, i pastori e coloro i quali possiedono animali da latte non lo lavorano ma donano l’intera raccolta ai vicini e ai conoscenti: È u’ latte ra Maronna. Concludiamo con un’antica espressione in base alla quale il colore della carnagione di una persona dipenderebbe dall’alimentazione:

  Lu gghiangh’e lu rruss trasi ppi lu mussu.
[Il bianco e il rosso / entrano per la bocca].

Di autore anonimo, questa espressione è rimasta tale nel mondo contadino; quando, però, lo stesso concetto è stato espresso con parole diverse dal filosofo tedesco Ludwig Andreas Feuerbach (“L’uomo è ciò che mangia!”) ha fatto il giro del mondo. A quanto sembra, però, anche questo concetto è finito in archivio perché la nutraceutica ci ha spiegato che “l’uomo è ciò che scarta”!

Chi ha vissuto il passaggio dall’alimentazione tradizionale a quella della civiltà dei consumi avverte un profondo stravolgimento: quella del passato era più povera, ma certamente più sana e gustosa. Non a caso, da alcuni anni, si cerca di promuovere il recupero degli antichi sapori privilegiando la produzione biologica o a chilometro zero, anche per favorire il turismo, specialmente quello rurale. Ma probabilmente in futuro i sapori difficilmente saranno quelli del passato. Specialmente ora che, dopo la commercializzazione delle tarme della farina e della locusta migratoria, l’Unione Europa ha autorizzato l’uso della polvere di grillo domestico, parzialmente sgrassata, come “novel food”.

Buona Pasqua a tutti.

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