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Carnevale, “una festa che il popolo offre a se stesso”.

di Giuseppe Geppino D’Amico

Carnevale; quattro ‘chiacchiere’ tra amici…”. Questo il tema della conviviale del Rotary Club Salerno presso il Circolo Canottieri Irno alla quale ho avuto il piacere di partecipare su invito del presidente. Tony Ardito. Considerata l’attualità dell’argomento ne pubblichiamo di seguito alcuni stralci.

Il Carnevale ha una storia antica. Tra i suoi antenati vanno ricordati i Saturnali dell’antica Roma e le Dionisiache greche. I Saturnali, legati a riti di purificazione, corrispondono al nostro Carnevale, anche se sono collegabili più al passaggio tra l’anno vecchio e quello nuovo che per il calendario romano cadeva in questi mesi. Le Dionisiache greche sono feste simili, in cui le regole sociali venivano temporaneamente eliminate: lo schiavo diventa padrone, il povero ricco.

Nel corso del tempo le tradizioni del Carnevale sono mutate perché hanno dovuto cedere qualcosa al consumismo; ne sono state contaminate ma, almeno nel Mezzogiorno, hanno conservato il senso delle tradizioni e della tutela.  Molte tradizioni hanno tratto linfa principalmente dalla devozione cristiana; alcune avevano radici ancora più antiche, di epoca pagana.

La Chiesa alcune le ha accettate magari modificandole in base al proprio credo ma con il Carnevale il cambiamento non è riuscito. Un esempio: nei secoli scorsi l’uso della maschera bestiale munita soprattutto di corna per il suo traslato figurativo demoniaco era vietato ma sappiamo che non è andata così.

Una testimonianza in tal senso la troviamo negli atti del Sinodo della Diocesi di Capaccio tenuto a Padula nel 1567: “Si ordina e si comanda a tutti e singole persone secolari che non debbano sotto pena di scomunica fare maschere con abito da sacerdote, monachi, monache, o altre persone ecclesiastiche et religiose, in pubblico, o in secreto; né fare prediche lascive, né contrafare persona ecclesiastica alcuna”.

Ma che cos’è il Carnevale? Nella seconda metà del ‘700, Wolfgang Goethe sosteneva che “il Carnevale non è una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a se stesso”. In tre parole: “È u’ popolo ca u vvò”. Cento anni dopo, sullo stesso argomento Richard Wagner parlava di “maschere cianciose e sudice, dal vestito a sbrendoli, ricoperte di pelle, tinte di fuliggine che l’ultima sera di Carnevale cantano parodie carnevalesche e impauriscono i ragazzi e le ragazze”.

Emblema della concezione carnevalesca è la maschera, uno dei motivi più complessi e ricchi di significato della cultura popolare: indossare la maschera era un modo di uscire dal quotidiano, disfarsi del proprio ruolo sociale e negare se stessi per diventare altro.

C’è un secondo aspetto da evidenziare: il Carnevale veniva considerato il simbolo del cibo, personificazione dell’ingordigia e dell’eccesso, festa nella quale era concesso di tutto, compreso il capovolgimento dei rapporti gerarchici. Tale festività appagava l’aspirazione del popolo a poter disporre di cibi straordinari, lontani cioè dal cibo erbivoro al quale si era costretti a fare ricorso per mancanza di disponibilità economica.

Il Martedì Grasso, quindi, era il giorno dell’abbondanza rispetto ai giorni precedenti e successivi. Non a caso si diceva: “Carnuluvaro chino re ‘nnoglie, // oj maccaruni e craj foglie”. La sera del Carnevale in segno di lutto si appendeva un panno nero che annunciava l’arrivo della Quaresima. Resiste ancora in alcuni paesi la simpatica usanza di “fare la Quarajésema“, cioè costruire una bambola di stoffa dalle sembianze di una vecchia ed appenderla ad una finestra, subito dopo che si è sciolto il corteo di Carnevale. Ha le stesse caratteristiche della maschera e in più le viene attaccata sul posteriore un’arancia, sulla quale vengono infilzate sette penne di gallina, che vengono poi tolte e bruciate una per ogni venerdì. IlVenerdì Santo anche Quarajésema veniva bruciata con l’ultima penna e l’arancia.

Tra i giorni più attesi dai golosi di tutta Italia c’è senza dubbio il martedì grasso che segna la fine del Carnevale, giorno in cui venivano consumati tutti i cibi più prelibati di cui si poteva disporre. Inoltre, era l’ultima giornata in cui si potevano gustare i tipici dolci della festa più allegra dell’anno, prima del periodo di digiuno e penitenza.

Ogni Carnevale ha le sue caratteristiche. A Satriano, piccolo centro della Basilicata, il Carnevale si distingue per l’evento della Foresta che cammina. Il sabato e la domenica che precedono il Carnevale si riuniscono ben 131 uomini-albero, uno per ogni paese della regione. La maschera tipica è il Rumita (eremita), un uomo rivestito di edera con un bastone decorato da un ramo di pungitopo. Secondo la tradizione i Rumita escono dal bosco aggirandosi tra le case del paese per portare un messaggio di buon auspicio: la primavera sta arrivando e porterà il risveglio della natura.

Ogni Carnevale ha le sue caratteristiche. A Satriano, piccolo centro della Basilicata, il Carnevale si distingue per l’evento della Foresta che cammina. Il sabato e la domenica che precedono il Carnevale si riuniscono ben 131 uomini-albero, uno per ogni paese della regione. La maschera tipica è il Rumita (eremita), un uomo rivestito di edera con un bastone decorato da un ramo di pungitopo. Secondo la tradizione i Rumita escono dal bosco aggirandosi tra le case del paese per portare un messaggio di buon auspicio: la primavera sta arrivando e porterà il risveglio della natura.

La Quaresima però non accetta i rifiuti che le vengono opposti e quando cerca del cibo si innesca un dialogo. La donna, rigorosamente vestita di nero dice:
Carnual Carnualicchi damm’ nu poc da sucicch’
E si nun me la vuoi ra’ ca’ t’ pozza brac’tà
Oltre ad essere famoso per maschere e costumi, il Carnevale è, quindi, un’occasione per lasciarsi andare a qualche peccato di gola in più.

Dai ricettari del Nord a quelli del Sud, il minimo comune denominatore dei dolci tipici di questa festa è che sono quasi tutti rigorosamente fritti. Che martedì grasso sarebbe, altrimenti? Tuttavia, ogni regione ha la sua golosità carnevalesca.

Dolce simbolo del Carnevale sono le chiacchiere, chiamate con nomi differenti a seconda delle regioni. L’origine risalirebbe all’antica Roma, quando per festeggiare i Saturnali si preparavano dolci a base di uova e farina chiamati “frictilia”, perché venivano fritti nello strutto. C’è chi attribuisce la paternità delle chiacchiere ad un cuoco napoletano, Raffaele Esposito che le avrebbe preparate per la regina Margherita di Savoia durante un pomeriggio di “chiacchiere” con le dame di compagnia. Da qui il proverbio “Chiacchiere fai, acqua bevi”.

Compagno di viaggio delle chiacchiere è il sanguinaccio. Quello autentico, nella pura tradizione meridionale era preparato col sangue suino. Nel 1992 in molte regioni d’Italia, è stata vietata la vendita del sangue di maiale, per cui è possibile il suo utilizzo, per la preparazione del sanguinaccio classico, quasi di nascosto, in un luogo chiuso e subito dopo la macellazione. Su richiesta della Regione Basilicata, vi sono però alcune eccezioni per il periodo di Carnevale, per cui il sanguinaccio mantiene ancora oggi la denominazione di Prodotto Agroalimentare Tipico (P.A.T.).

Un altro dolce tipico di Carnevale è il Migliaccio. Si prepara, di solito, il martedì grasso ed è diffuso in tutta la Campania. Le sue origini sono legate al medioevo e la parola “miliaccium” significa pane di miglio.

Il re della tavola di Carnevale è senza dubbio “Sua Maestà il Maiale”, una delle glorie della gastronomia, simbolo dell’abbondanza, celebrato da gourmet, scrittori de poeti.

O porco mio gentil, porco dabbene, // fra tutti gli animali superlativo, // desiderato a’ desinari e cene; // tu contenti, saziando, ogni uomo vivo colle tue membra valorose e belle; tu non hai ‘n te niente di cattivo. // Dal capo ai piedi, il sangue, insin la pelle // ci doni il cibo, in quanti modi sanno / teglie, stridioni, pentole e padelle”.

Anton Francesco Grazzini anno 1564 – Rime burlesche

Con questi versi del 1564 Anton Francesco Grazzini, celebrava nelle sue “Rime burlesche” il maiale,simbolo dell’abbondanza: “Nelle case dove si ammazza il maiale, si sguazza tutto l’anno”, come ci ricorda un adagio popolare. Un po’ dappertutto, questo animale è considerato il re della fattoria. Lo chiamano “San Porcello / di cui al suo cospetto / bisogna parlare con rispetto”.

A Carnevale durante le visite nelle case le maschere chiedevano cibi e bevande come ci dimostra questa strambalata quartina:
Zicchia zicchia, zicchia,
ràammi nu capu ri sauzìcchia,
ca si nu mi ni vuò rà
ca ti puòzzi strafucà

In quasi tutte le case si vedevano appesi salami, lardo, prosciutto, vendrescka, capicollo e vessiche chiene r’ ‘nzogna (vesciche piene di sugna). La carne di maiale non si tritava: si arricciava; quella per le soppressate si batteva con la mannaia; quella per le salsicce si lavorava con la punta di coltello.

Le salsicce si distinguevano tra quelle con carne magra e quelle con carne grassa (le nnoglie), che venivano cotte nel ragù o nella verdura. Alla verdura era riservata la cervellata, cioè l’intestino riempito con cervello, fegato, milza, polmone, reni e altri scarti, tutti spezzettati. Per condire si usava il grasso di maiale, la ‘nzogna o sugna. Insomma, del maiale non si buttava nulla; le frattaglie si utilizzavano per il soffritto, il fegato, il cuore e la lingua costituivano piatti prelibati.

La trippa, invece, si preparava all’insalata oppure si usava nel ragù. Persino il sangue poteva essere mangiato sfritto (a Sassano si ricordano if’latieddd’ c’’a scannatora; a Polla la saporitissima sancia).

Tra gli altri piatti tipici del Carnevale ricordiamo le lasagne, le polpette e le scartellate. Le lasagne hanno origini incerte; ma è innegabile l’importanza che esse hanno avuto ed hanno sulle tavole di tutta la Campania. Ferdinando II di Borbone ne nominato Re Lasagna”. Le polpette di Carnevale sono immancabili sulle tavole di buona parte dei Campani.

Non manca documentazione interessante anche nel Vallo di Diano: dall’archivio privato di una famiglia di Teggiano è venuto fuori un documento intitolato “Trivolo per Carnevale che sta finendo”, 34 quartine più una finale annotata come “Scompetirura”. Sicuramente dovette servire da copione per qualche allegra mascherata e questo ci dice che il Carnevale era abituale già nel ‘700.

Tutto era lecito tra signori e contadini come a Montesano dove effettivamente i valori finivano sottencoppa. Prima di bussare alla casa dei “signori” per chiedere cibo e vino per festeggiare il Carnevale bisognava chiedere il permesso nei giorni precedenti.

Fa sorridere una vicenda verificatasi nello stesso periodo a Sassano dove una donna incinta che stava seguendo “li mascari” quando si rende conto che sta per partorire chiede al marito di riaccompagnarla a casa; il coniuge risponde così: “Marì, mantieni n’ati pochi; quanti finimi ri vrè ri mascari e po’ iami.

L’alimentazione penitenziale terminava a Pasqua quando si preparava la cosiddetta “pizza chiena” L’espressione contento come una Pasqua è dovuta proprio alla felicità che il cibo offriva dopo i 40 giorni di penitenza. La Pasqua si invocava così:
Vieni Pasqua, e bbieni currennu,
ca li becchi vannu carennu:
li ggiùvan’ pp’ s’apparà
e li bbecchi pp’ tupp ‘tijà.

Il dopo Carnevale lascia non pochi rimpianti. Concludo con una riflessione su un aforisma di Luigi Pirandello che è anche un consiglio: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.

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