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Cinque anni fa la scomparsa don Antonio Riboldi. Da parroco dei terremotati del Belice a Vescovo anticamorra

By Giuseppe Geppino D’Amico

Cinque anni fa, il 10 dicembre del 2017, decedeva a Stresa all’età di 94 anni Monsignor Antonio Riboldi. Di origini lombarde, Rosminiano, dal 1978 al 2000 era stato a capo della diocesi di Acerra (Napoli), schierandosi apertamente contro la criminalità organizzata. Ancora prima, come parroco di Santa Ninfa, nel Belice, aveva dato voce alla disperazione della popolazione colpita dal terremoto del 1968: organizzò e guidò una marcia su Roma insieme a molti ragazzi del Belice per protestare contro i ritardi della ricostruzione.  Ad Acerra arrivò nel 1978 e rimase alla guida della Diocesi fino al 1999. Quando lasciò l’esercizio episcopale per raggiunti limiti di età, decise comunque di restare ad Acerra e la città gli conferì la cittadinanza onoraria. In un territorio difficile, segnato da una forte presenza camorristica, in anni particolarmente violenti e difficili don Riboldi (così voleva essere chiamato) si schierò coraggiosamente contro la criminalità organizzata, ricevendo in cambio molte minacce.

Storica la marcia del 17 dicembre 1982 quando riuscì a farsi seguire da circa 10.000 giovani per le vie di Ottaviano, roccaforte del Clan di Raffaele Cutolo, fondatore negli anni ‘70 della Nuova Camorra Organizzata (Nco). Due anni prima, il 7 novembre del 1980, lo stesso Cutolo aveva fatto uccidere il giovane consigliere comunale Mimmo Beneventano. “In quel momento -raccontò don Riboldi nel 2013, in occasione dei suoi 90 anni- “mi sono sentito veramente di essere un vescovo, e ho capito cosa significasse essere un prelato che deve amare la gente anche se non ricambiato, amare la Chiesa anche se non tutti ti capiscono”.

Gianfranco Nappi, ex deputato “comunista” dal 1987 al 2001, uno degli organizzatori della manifestazione, così ricorda quegli anni: “Nacque allora la generazione anticamorra. Quella marcia fu la scintilla di una intera generazione che rifiutava la camorra. Se molti passi in avanti sono stati fatti nella lotta alla criminalità lo si deve anche a quella giornata”.  In quello stesso anno 1982 Don Riboldi fu uno dei protagonisti insieme agli altri vescovi della Conferenza Episcopale Campana del documento programmatico “Per amore del mio popolo non tacerò”. E fu così perché, nonostante l’impegno dei giovani avesse subito un certo rallentamento, andò avanti con la sua azione e nel 1985 si rese protagonista di un’altra decisione clamorosa vietando l’intera parte “laica” della festa patronale di Acerra, in cui da tempo si era infiltrata la malavita: “Basta tangenti sui santi, quest’anno faremo a meno di cantanti e fuochi d’artificio, svolgendo soltanto funzioni religiose. Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota”. Nel corso del suo episcopato non gli furono risparmiate accuse di protagonismo che, però, non lo turbavano perché “di fronte all’ingiustizia non puoi restare fermo e muto, devi agire. Questo è il principio che ha ispirato e guidato tutta la sua vita di pastore nel Mezzogiorno d’Italia”. Molti criminali in carcere, compreso Raffaele Cutolo, vollero incontrarlo e a Lui si attribuiscono i pentimenti di alcuni camorristi.

Nel quinto anniversario della scomparsa il giornalista Pietro Perone ha pubblicato il libro “Don Riboldi (1923-2023) – Il coraggio tradito”, con prefazione di mons. Antonio Di Donna, attuale Arcivescovo di Acerra. Ci sono atri due anniversari non meno importanti che giustamente l’autore del libro ricorda: I 40 anni dalla prima marcia anticamorra, capeggiata da Don Riboldi e poi il centenario della sua nascita (16 gennaio 1923). Il titolo del libro del giornalista del Mattino continua con il sottotitolo “Il Coraggio tradito”, perché molte delle cose che furono dette in quella stagione di speranza sono state poi tradite dalla politica che non è riuscita a creare situazioni migliori affinché quel coraggio avesse un seguito e si creassero le condizioni di una rinascita sociale che purtroppo non c’è stata. A 40 anni di distanza assistiamo ad una recrudescenza del fenomeno camorristico”.

Monsignor Di Donna lo ha ricordato così: “Don Riboldi è stato anzitutto un pastore, un vescovo, che ha guidato il suo popolo. Un difensore della città come gli antichi vescovi. Poi è stato un anche un profeta perché ha saputo dare speranza ai poveri, denunciando le ingiustizie e impegnandosi per il bene. E poi è stato l’artefice concreto, pratico, si è messo a capo di un popolo perché questo, come dice il Vangelo, era “pecore senza pastore”. Lui ha avuto coraggio in tempi difficili di gridare ed educare il popolo ad alzare la testa e a rivendicare la sua libertà e i suoi diritti”.

Don Antonio Riboldi non disdegnava incontri con i ragazzi. Ricordo, in particolare, due eventi durante i quali ho avuto la possibilità di intervistarlo: nel febbraio del 1990 a Polla per una conferenza sul tema “Meccanismi, strutture di ingiustizie e nuove vie di solidarietà”, riservata ai ragazzi della Scuola Media, e in precedenza a Sapri (luglio del 1984 nel cinema Ferrari) dove parlò ai giovani del Golfo di Policastro. Era un periodo in cui i nostri territori cominciavano ad avere problemi causati dal traffico di stupefacenti in continuo amento. Dell’intervista di Sapri, realizzata al termine di un convegno sul tema “Minori e tossicodipendenze”, è opportuno riproporre, anche se sono trascorsi circa 40 anni, alcune risposte relative a problematiche ancora attuali.

Don Riboldi a Polla

Alla domanda se avesse avuto paura quando in occasione del primo incontro ad Acerra per non farlo parlare (così si disse all’epoca) tolsero la corrente e la gente non sentendo la sua voce pensò che lo avessero ucciso, così rispose: “Assolutamente no, perché non combattiamo gli uomini o siamo contro qualcuno; noi richiamiamo gli uomini a togliere i motivi di male che possono danneggiare la comunità. Un conto è il timore, un conto la mia realtà: io non ho paura”.  In merito a quale fosse la via giusta per vincere la droga così rispose: “Normalmente distingui tra prevenzione, repressione e cura. Il lavoro più grosso riguarda la prevenzione; proporre cioè alla gioventù, alla società valori contrari a quelli che portano alla droga… Siamo capaci di mettere le manette a uno, ma non siamo capaci di curare chi abbiamo fatto ammalare. Mettere le manette è una questione di sveltezza. Curare un tossicodipendente è una questione di pazienza, di idee, di strutture. Ed è qui che siamo sempre in ritardo”.

Un consiglio ai politici? “Direi di stare più attenti: una città si salva solo denunciando ogni possibile penetrazione della droga. Molte volte, magari per una lira in più, per una presenza turistica in più, chiudiamo un occhio sulla droga, senza renderci conto delle conseguenze…. Può diventare una zona non più turistica ma di morte”. Nessun dubbio, infine, sul ruolo della Chiesa: “Direi curativo, prendersi cura di chi è ammalato nelle comunità; ma anche preventivo dando ai giovani un messaggio valido che non li spinga a provare. Il drogato è il risucchio della società. Facciamo uomini veri e finirà la droga”. L’auspicio era rivolto ai giovani ma anche ai genitori. Valeva allora, a maggior ragione è valido anche ora.

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