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Dialetto e identità, partito il progetto nelle Scuole di Teggiano: l’autorevole opinione di Vincenzo Andriuolo

Negli ultimi tempi sono stati pubblicati diversi volumi dedicati al vernacolo del Vallo Diano. A Teggiano, in occasione della presentazione del libro di Cono Cimino, “Ni sìmu rufriscàti a la cìbbia ri la Sinacòca”, cunti e versi in vernacolo teggianese”, Vincenzo Andriuolo, autore del volume “Il dialetto romanzo di Teggiano”, auspicava che anche le scuole del territorio mostrassero interesse per il vernacolo coinvolgendo docenti e alunni. Grazie alla sensibilità della Dirigente Scolastica, Prof. Maria D’ Alessio, e di alcune docenti (Michelina Di Mieri, Giusy Lo Buglio , Elisa Mangieri, Angela Morello) presso l’Istituto Comprensivo di Teggiano è partito il progetto “La lingua di Diano, veicolo della cultura degli avi”.

Pubblichiamo di seguito un intervento dello stesso Vincenzo Andriuolo.

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TESTO DI VINCENZO ANDRIUOLO:

Due sono i concetti che abbiamo sempre ribadito – ancorché con forme e sfumature differenti – nelle occasioni in cui si è discusso di dialetto. Da un lato che   esso è lingua della emozione vera, in quanto testimonia del legame strettissimo ed indissolubile tra storia, cultura e lingua di una comunità, ovvero tra contesto, fenomeni che ne caratterizzano lo sviluppo sociale, spirituale e materiale e suoni che li esprimono con le relative sensazioni ed emozioni. Dall’altro la necessità di dare sostanza – come singoli ma, soprattutto, come collettività – alla consapevolezza che perso anche uno solo di questi elementi li avremo irrimediabilmente persi tutti, proprio perché componenti di un sistema.

Ed è proprio da una siffatta consapevolezza – anche questo abbiamo spesso ripetuto – che si genera quella forza intima e collettiva al tempo stesso, atavica, di continuità culturale, che ci spinge a conservare e valorizzare le nostre radici; una spinta o forse, meglio ancora, la incomprimibile necessità di ritrovare nel dialetto il senso stesso della parola come espressione di cultura e di poesia perché, come ha detto qualcuno “… la parola della poesia non è mezzo, è corpo. Fosse solo mezzo, non darebbe emozione …” (Loi, F., La lingua della poesia).

Azioni concrete (e la tautologia non è casuale) in questa direzione vanno poste in essere in tempi rapidi giacché la sopravvivenza delle varietà linguistiche locali – proprio perché scarsamente, se non per nulla formalizzate – è minacciata dalla graduale scomparsa dei parlanti madre lingua.  Ma oltre alla tempestività è imprescindibile un’altra condizione.  Qualsiasi realizzazione  (dalla grammatica al dizionario, alle raccolte di aneddoti, aforismi, proverbi, modi di dire, filastrocche, scioglilingua, canzoni e preghiere dialettali) deve sempre essere svolta con rigore scientifico, ovvero con l’utilizzo  –  dichiarato mediante  esplicito richiamo della bibliografia di riferimento –  di metodi, tecniche e strumenti propri  della linguistica e delle altre scienze umane coinvolte, a partire dalla enucleazione dei fonemi caratteristici dello specifico sistema linguistico  con  relativa resa grafemica.

In una logica di questo tipo diventa cruciale il ruolo delle istituzioni pubbliche e della scuola, quella dell’obbligo in primis. Questa ultima, in particolare, ha autorevolezza e scienza  per  favorire una operazione storica di documentazione e di riscoperta delle origini della comunità di riferimento, della identità e specificità di essa in un mondo globalizzato e indistinto, coinvolgendo gli studenti in attività di conoscenza e conservazione del patrimonio linguistico locale; e con esso della cultura contadina o, comunque, preindustriale, che permea, tra gli altri,  i dialetti del Vallo e che, allo stato,  sembra patrimonio esclusivo dei parlanti più anziani.

Non voglio certo riaprire qui una discussione sulla didattica della “Scuola felice”, splendida intuizione di Giuseppe Lombardo Radice e asse portante della riforma Gentile. Vero è, però, che l’insegnamento del dialetto risponde ad una esigenza di crescita della persona: i dialetti non devono essere considerati – perché non sono- sottosistemi linguistici, varianti dei poveri o degli ignoranti bensì lingue sorelle a pieno titolo della lingua nazionale, e quindi una risorsa in materia di bilinguismo o di plurilinguismo. Quel bilinguismo che già Graziadio Isaia Ascoli vedeva come valore in se, come patrimonio da difendere ed ampliare.  Il dialetto radica l’individuo nella realtà in cui vive ma non lo chiude li dentro; semplicemente, lo apre al confronto con maggiore consapevolezza della propria identità.

E non sarà certo un male poter ricordare ai nostri ragazzi che Dante Alighieri, padre della nostra lingua, è stato il primo dialettologo; alla fine del suo peregrinare alla ricerca del volgare più adatto al suo capolavoro, la Divina Commedia, redigerà il primo elenco ragionato delle varietà linguistiche della Penisola, confrontandole tra loro per addivenire alla scelta definitiva.

Senza contare che in Italia vi è una ricchissima letteratura dialettale sulla quale pochi, purtroppo, hanno il coraggio di soffermarsi, preferendo spesso sottolineare la presenza di forme dialettali nella letteratura in italiano. Basti pensare ai deliziosi versi in friulano del giovane Pasolini, del periodo della fondazione dell’Academiuta di lenga furlana, o ai suoi successivi esperimenti nel romanesco di Ragazzi di vita, all’uso sapientissimo di vari dialetti italiani da parte di Carlo Emilio Gadda, al veneto particolarmente efficace di Andrea Zanzotto e, ultimi ma non certo per importanza, agli splendidi endecasillabi di Gaetano D’Elia in vernacolo teggianese. Ma qualche, invero ben rigoglioso, germoglio emerge anche nella mia Teggiano; un germoglio che va custodito ed alimentato con amore e con … scienza.

VINCENZO ANDRIUOLO

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