Di Giuseppe Geppino D’Amico

Nella storia del Risorgimento il Cilento è entrato a pieno titolo anche a seguito dell’insurrezione del 1828 contro i Borbone, decisa per chiedere la Costituzione e repressa nel sangue dal maresciallo Francesco Saverio Del Carretto su ordine del Re Francesco I. Anche se l’epilogo fu negativo, il seme messo a dimora da quei darà i suoi frutti i suoi frutti anche nel Cilento, definito dallo stesso Del Carretto “la terra dei tristi”. Allo sfortunato tentativo del 1828 parteciparono anche alcune donne che, pur non imbracciando direttamente il fucile, assecondarono i loro compagni o i loro figli. Una citazione particolare merita per il suo coraggio di madre Saveria Basile, la madre di Alessandro, Licurgo e Davide Riccio di Cardile, frazione di Gioi. Appresa la notizia che il figlio Davide era stato condannato a morte e che sarebbe stato fucilato nella piazza di Vallo della Lucania, la donna chiese al maresciallo Francesco Saverio Del Carretto di poterlo abbracciare un’ultima volta. Entrata nel carcere di Vallo, pur di sottrarre il figlio al boia, il 20 luglio 1828 la coraggiosa donna diede furtivamente al figlio una fialetta di potente veleno che aveva nascosta nel seno. Davide Riccio, alla maniera di Socrate, bevve il veleno e poco dopo morì. Quando gli fu comunicata la notizia, il Del Carretto andò su tutte le furie ma ordinò che la pena inflitta al rivoltoso venisse ugualmente eseguita. Il corpo di Davide Riccio fu portato in piazza Spio sorretto con due pali dietro la schiena: fu così che i cittadini di Vallo assistettero, sgomenti, alla fucilazione di un cadavere. Nel successivo processo per gli avvenimenti di quel tragico 1828 risultarono imputate altre donne del Cilento: Serafina Apicella, originaria di Cetara, seconda moglie di Antonio Galotti, condannata a 25 anni di ferri; Alessandrina Tambasco di Montano, a 10 anni di ferri per avere confezionato le coccarde bianche dei rivoltosi; la suocera, Rosa Bentivenga di Castelsaraceno, condannata a 6 anni. Arrestate e poi scarcerate le sorelle di Alessandrina, Michelina e Nicolina.
La donna che più ha colpito l’immaginario collettivo è, senza dubbio, Alessandrina Tambasco. La sua colpa? Avere confezionato nottetempo insieme alla madre e alle sorelle le coccarde bianche che gli insorti avrebbero indossato per reclamare la Costituzione francese e la riduzione del prezzo del sale. Arrestata, subì violenze morali e fisiche: il 5 agosto 1828 Il Giornale del Regno delle Due Sicilie la infangò accusandola di essere stata amante di Galotti (uno dei rivoltosi che riuscì a riparare in Francia), mentre per la presunta partecipazione alla rivolta fu condannata a dieci anni di carcere duro che scontò a Ponza e a Salerno. Il fratello Vito fu fucilato a Bosco e decapitato per esporre in pubblico la sua testa quale monito per gli altri abitanti. L’8 agosto il marito, Pietro Bianchi, cancelliere comunale, venne condannato a dieci anni di reclusione, ma il 3 maggio 1829 morì di malattia e di stenti nel carcere di Salerno. I figli, con il padre morto e la madre in galera, soffrirono la fame e la casa venne. Scontato con dignità e fierezza il carcere duro, Alessandrina ritornò a Montano ma ormai la sua famiglia era distrutta. Morì a Montano a 85 anni il 7 dicembre 1879.

Della vicenda si è recentemente interessata Mariella Marchetti, giornalista docente di lettere presso il Liceo Parmenide di Vallo della Lucania. Come modus operandi per ricordare la figura di Alessandrina ha scelto il monologo. Il testo che va l’aspetto storico è stato pubblicato dall’Editore Giuseppe Galzerano, pioniere degli studi relativi alle vicende del Cilento. Nel monologo Alessandrina narra la vicenda in prima persona ma va oltre proponendo alcune tematiche legate alle violenze di vario genere che le donne hanno subito e che continuano a subire. Alessandrina traccia la via da seguire per ottenere l’emancipazione e il Cilento ha bisogno di conoscere le storie del proprio passato Il libro è tutto al femminile perché interagiscono quattro donne. Nel corso della presentazione a Paestum Mariella Marchetti ha affermato che “era doveroso riabilitare la figura di Alessandria per farla conoscere meglio soprattutto ai giovani di oggi poco propensi alla lettura. Ho scritto per riabilitarla. È una donna che viene discriminata in quanto tale ma ha il coraggio di stravolgere la propria condizione economica e sociale, mettendosi in discussione per i diritti e per la libertà. Ho cercato di immedesimarmi in lei per far uscire tutto il sentimento di una donna che anche in carcere pensa al figlio e alla in paese casa più volte devastata. Quindi, un personaggio che andava assolutamente raccontato, paragonabile alle eroine della tragedia greca che, contrarie alla guerra, non disdegnavano di ribellarsi ai mariti. Su di lei fu gettato anche lo stigma di donna dai facili costumi. Le rovinarono la vita anche dal punto di vista della reputazione e della moralità. Quello stigma è arrivato fino ai nostri giorni. Dal carcere esce claudicante ma non rassegnata e attende l’arrivo di Garibaldi perché il suo anelito di libertà non viene mai meno. L’ultimo affrontò lo ricevette dalla burocrazia del tempo che le negò persino la pensione con la futile motivazione di non aver presentato domanda in carta bollata. Eppure, aveva contribuito al miglioramento della società e dei diritti di tutti”.

Montano Antilia ha reso omaggio alla sua eroina con una targa che ne ricorda il suo sacrificio collocata sul muro esterno dell’abitazione di famiglia. Davanti al suo palazzo a Montano Antilia c’è una targa in cui se ne ricorda il sacrificio. Nel settembre scorso il monologo di Mariella Marchetti è stato proposto al pubblico prima della pubblicazione dall’attrice Biancarosa Di Ruocco e recentemente a Paestum da Tonia Rotondo per iniziativa dell’Associazione Geo Trek, in occasione della presentazione del volumetto. L’8 marzo, giornata della donna, sarà riproposto alle alunne e agli alunni del Liceo Parmenide di Vallo dove l’Autrice insegna.
L’ultima annotazione riguarda la copertina. È stata curata dall’architetto Francesca Paola Mondelli che ha utilizzato una foto di grande valore storico e artistico al tempo stesso, il murales in maioliche che negli anni ’80 del secolo scorso fu realizzato dal pittore José Ortega (allievo di Picasso) a Bosco, dove l’artista visse per alcuni anni dopo essere sfuggito al regime franchista. Ortega riteneva Bosco una vittima della repressione come egli era, motivo per cui volle raffigurare i soldati borbonici in marcia, pronti a reprimere le aspirazioni di libertà dei Cilentani. A conferma che anche l’arte è utile alla storia.