Di Giuseppe D’Amico
Dalla nascita della Repubblica la lotta delle donne, decise a conquistare l’altra metà del cielo (lotta certamente legittima e non priva di successi), ha ottenuto importanti risultati: il diritto al voto e all’elettorato attivo e passivo; la legge per il divorzio nel 1970; la legge del 1975 istitutiva i dei consultori familiari; la legge del 1978 che legalizzava l’interruzione volontaria della gravidanza; la legge del 1975 di Riforma del diritto di famigliae la legge del 1991 sulla parità uomo-donna nel lavoro. Si è partiti dalle “quote rosa” per arrivare oggi alle “quote blu” per i dirigenti scolastici di sesso maschile.
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I numeri non mentono e ci dicono che con le loro lotte le donne hanno ottenuto grandi risultati: già molto numerose nella Scuola, nell’Amministrazione dello Stato, nella Magistratura, negli Ordini professionali oggi possono arruolarsi nelle Forze Armate. I risultati più importanti, almeno dal punto di vista numerico, sono quelli relativi alla presenza molto numerosa nel mondo della scuola al punto che già nel 2008, 15 anni fa, l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera affermò che “la scuola è l’unico settore che non ha bisogno delle quote rosa ma di quote blu”. Il neologismo “quote blu” non poteva essere ignorato dalla Treccani che lo ha certificato con questa definizione: “Quota blu loc. s.le f. (ironica.), percentuale di docenti di sesso maschile che si dedicano all’insegnamento”. Vediamo qualche dato. Nel 2018 le docenti impegnate nelle scuole pubbliche italiane, tra titolari, supplenti e insegnanti di sostegno erano 712.527, pari all’81,7% del totale. È interamente appannaggio delle donne l’educazione nella scuola dell’infanzia, dove sono il 99,3% dei docenti, e nella primaria, dove sono il 96,1%, mentre scendono al 77,2% nella scuola secondaria di primo grado e al 65% nella secondaria di secondo grado.
L’argomento “quote blu” è tornato d’attualità nei giorni scorsi quando la stampa nazionale ha diffuso la seguente notizia: il concorso per dirigenti scolastici che si svolgerà nei prossimi mesi prevede espressamente all’articolo 10 della bozza del bando che, “considerate le percentuali di rappresentatività di genere in ciascuna regione, viene garantito l’equilibrio di genere applicando in diverse regioni, tra le quali (manco a dirlo) Campania, Calabria, , Lazio, Puglia, Sicilia, Toscana (in cui il differenziale tra i generi è superiore al 30 per cento) il titolo di preferenza in favore del genere maschile in quanto meno rappresentato”. Questo significa che in caso di parità in graduatoria, sarà data priorità al candidato maschio rispetto alla collega. E questo è stato scritto, nero su bianco, nel decreto del giugno scorso che introduce le norme per il riequilibrio di genere nella pubblica amministrazione. Come dire? Se negli altri settori ci sono le “quota rosa” per compensare “svantaggi nelle carriere al genere meno rappresentato”, a scuola avremo le “quote blu”! E c’è pure chi, non senza un pizzico di ironia, propone di istituire per aiutare i maschi anche il telefono blu! Scherzi a parte, dal Ministero hanno fatto sapere che il principio quasi certamente sarà ribadito anche nel prossimo concorso per gli insegnanti il cui bando è in arrivo.
Purtroppo, però, oggi il mondo scolastico ha ben altri problemi che vanno oltre le “quote blu”. La scuola non gode di buona salute. Gli effetti del Covid e la chiusura per quasi due anni si fanno ancora sentire in modo pesante nei risultati scolastici. A leggere i dati relativi alle prove Invalsi del 2023, dopo tredici anni di studio soltanto uno studente su due arriva alla maturità con un livello sufficiente di preparazione in italiano e matematica. Inoltre, le differenze tra le regioni del Nord e quelle del Sud si avvertono al punto che il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha annunciato che “non si può più accettare che l’Italia sia divisa in due tra il Nord e il Sud e che si interverrà soprattutto sulla matematica e sull’inglese. Abbiamo il dovere morale -ha sostenuto il ministro- di ricomporre in unità il sistema scolastico del nostro Paese per dare a tutti le stesse possibilità di successo formativo e, quindi, lavorativo. Nel luglio scorso il ministro ha preannunciato un progetto su 240 scuole del Sud ove “saranno mandati quattro cinque insegnanti in più per plesso e garantito il tempo pieno”. A Caivano, dopo i recenti tragici fatti sono stati previsti 20 docenti in più. Prendiamo atto delle buone intenzioni del ministro non senza ricordare che di buone intenzioni sono lastricate le vie del mondo. Come dire? è ancora l’osso, aspettiamo la polpa!
C’è, però, da evidenziare un altro problema che preoccupa non poco in Campania ed è il cosiddetto dimensionamento scolastico voluto dal Governo che, se attuato come previsto, nel 2024 interesserà 120 istituti. Secondo i dati forniti dall’assessora regionale alla Scuola, Lucia Fortini, rischiano la perdita dell’autonomia 36 plessi nella provincia di Napoli, 41 in quella di Salerno, 18 in Irpinia, 16 nel Sannio e 9 nel Casertano. Il mondo della scuola campana è in ansia per il taglio netto delle autonomie scolastiche che porterebbe alla perdita di posti di presidenza, di segreteria e di altro personale. A questo si aggiunga la preoccupazione dettata dai dati Invalsi relativi alla dispersione e all’abbandono scolastico in Campania: sono altissimi e ci dicono anche che abbiamo gli studenti meno preparati d’Italia per cui i tagli proposti appaiono un controsenso rispetto alla manifestata buona volontà del ministro leghista. I primi ad essere contrari sono i Dirigenti scolastici perché ritengono che il dimensionamento creerà inevitabilmente disfunzioni amministrative e didattiche. Disfunzioni che preoccupano non poco nella convinzione che la scuola deve formare i giovani di oggi se si vuole assicurare la crescita della società del domani. E i tagli non aiutano.