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Di Pari Passo – 1° maggio e parità salariale: sfide e opportunità

Di Rosa Mega

La violenza nei confronti delle donne inizia molto prima di uno schiaffo: prende il via con un linguaggio discriminatorio e offensivo della dignità femminile. Comincia negando la parità perché la violenza, come ci ha insegnato Michela Murgia, “è un fiore che germoglia sulla pianta della disuguaglianza”. Per uscire da una spirale di violenza fisica e psicologica, è fondamentale per una donna avere la sua indipendenza economica. Ma le donne a parità di mansioni, lavoro e responsabilità quanto guadagnano? “L’Italia presenta uno dei peggiori gap salariali in Europa”, registrò l’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo primo intervento in Senato, inserendo il contrasto al “gender pay gap” fra le priorità dell’agenda di Governo.

Molti sono convinti che il primato della lotta per la parità in busta paga spetti alle operaie della Ford di Dagenham vicino Londra, con la loro protesta del 1968 che ha anche ispirato in film “We want sex” del 2010. In realtà le prime ad ottenere un giusto salario sono state le Italiane e nello specifico le tessitrici di Biella. Nel 1945 il “contratto della montagna”, firmato in clandestinità prima della fine della guerra, sancì per la prima volta la parità retributiva uomo-donna. Non solo, ma introdusse anche le 40 ore settimanali e un congedo di maternità retribuito ante litteram, un accordo che valeva per tutte le fabbriche tessili del biellese. Nell’agosto del ’45 l’intesa venne ratificata, ma la parità di salario venne riconosciuta solo alle donne che lavoravano al momento della stipula dell’accordo, escludendo di fatto le nuove assunte da questa tutela. Fu questo il punto di partenza di una serie di rivendicazioni contro una mentalità che considerava la differenza retributiva come una giusta compensazione del fatto che le donne, prima o poi, sarebbero state assenti per maternità.  Nel 1963 un’operaria, Maria Ceria, intentò una causa che vinse nei tre gradi di giudizio, aprendo la strada, nel successivo contratto del 1964, all’inserimento della clausola sulla parità retributiva fra uomo e donna.

E da allora? Qual è la situazione in tema parità salariale in Europa e in Italia? Il divario retributivo medio tra uomini e donne per ogni ora lavorata in Europa è del 12,7%. Le Italiane, secondo i dati forniti nel 2021 da Eurostat, guadagnano il 15,5% in meno l’ora nel privato e il 5,5% in meno nel pubblico.

Il settore pubblico discrimina meno le donne in busta paga: si entra per concorso, e anche gli avanzamenti di carriera con gli aumenti in busta paga scattano in automatico, o si conquistano superando esami e prove sulle quali è più difficile operare discriminazioni. Nel settore privato invece molto più spazio è lasciato alla discrezionalità del capufficio, caporeparto e capo del personale e nella discrezionalità si insinuano più facilmente le disparità di trattamento. Alle donne poi vengono quasi sempre proposti contratti part time anche quando vorrebbero lavorare a tempo pieno, e nei colloqui di lavoro non manca mai la domanda sull’intenzione o meno di avere un figlio. Come se questo, soprattutto in un momento storico di grande denatalità, fosse un aggravante poco piacevole sul biglietto da visita.

Ma la domanda delle domande -guardando ai fatti di casa nostra- è: come è possibile che in Italia si verifichi una situazione del genere quando è scritto nella Costituzione con i suoi articoli 37 e 51 che non sono tollerabili discriminazioni di genere sul lavoro?

La questione del “gender pay gap” dimostra ancora una volta che non basta disporre la parità attraverso le leggi perché questa diventi realtà, ma bisogna realizzarla nella vita di tutti i giorni.  E questo è davvero un altro discorso. Molto spesso le donne guadagnano di meno perché lavorano nei settori con le retribuzioni più basse, settori che hanno adeguato molto lentamente gli stipendi (istruzione, sanità, assistenza sociale). Gli uomini dominano i comparti ad alto reddito, quelli delle cosiddette discipline STEM. Proprio in questo campo le cose per le donne si complicano ulteriormente quando cercano di arrivare agli apici della carriera provando a scalfire il famoso “soffitto di cristallo”.

Il divario salariale di genere è un fenomeno che sintetizza in sé tutti gli effetti di tutte le disparità alle quali sono soggette le donne nel mercato di lavoro: più precarie, meno in carriera, con interruzioni più lunghe dell’attività lavorativa dovute a uscite dal mercato del lavoro per accudire figli. L’effetto di tutto ciò dalla busta paga rimbalza sulla pensione, tenuto conto che per effetto della Legge Fornero tutti vanno in pensione di vecchiaia a 67 anni, con almeno 20 anni di contributi. Parità nell’età pensionabile e differenza nella retribuzione condizionano anche l’Opzione Donna, basata su un sistema contributivo. Di fatto le donne pagano di tasca propria la loro uscita dal lavoro anticipata.

L’Europa ha varato una nuova direttiva da attuare entro il 2026 con una serie di indicatori da rispettare per una piena e concreta parità salariale. In questo contesto l’Italia ha stanziato fondi PNRR per le aziende che certificano la parità di genere, anche se attraverso una serie di pratiche burocratiche che sarebbe stato utile snellire. La riduzione del “pay gap” resta quindi un’operazione complicata, e nessuno la regalerà su un piatto d’argento. Al contrario richiederà tempo, energia e voglia di mettere in campo le proprie ragioni. A meno che non ci si accontenti di “cambiare tutto perché nulla cambi”. Un recente spot trasmesso in occasione dell’otto marzo parla ancora di 154 anni per raggiungere la piena parità. La strada è tutta in salita. Cosa fare?

Serve una spinta in più. Serve per le donne che hanno bisogno di autonomia economica, per le famiglie che hanno bisogno del doppio reddito, e per il Paese che ha bisogno di più figli e più PIL.

Parità salariale e lavoro, lavoro sicuro: quello cui avevano diritto Giovanna Curcio (di soli 15 anni) e Annamaria Mercadente (di 49 anni), le operaie retribuite “2 euro l’ora” morte nell’incendio della fabbrica Bimaltex a Montesano sulla Marcellana nel 2016. Al loro ricordo va il commosso pensiero della rubrica Di Pari Passo nel giorno del 1° maggio.

Per raggiungere il risultato di un lavoro equo, sicuro, retribuito nel rispetto della parità salariale bisogna agire su due fronti: riforme dall’alto e cambio di mentalità dal basso. Rivolgendosi sia agli uomini che alle donne: solo insieme sarà possibile costruire nuovi e più sani equilibri.

Senza una reale parità salariale nella nostra società, non ci sarà mai un tangibile progresso, e continueranno ad accrescersi disuguaglianza e violenza. Buon 1° maggio!

ROSA MEGA

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