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“Lavoro e Democrazia”, l’opinione dell’On. Enzo Mattina

Enzo Mattina, Già dirigente sindacale, parlamentare italiano e europeo, ex sindaco di Buonabitacolo

Pubblichiamo di seguito il contributo sul tema “Lavoro e Democrazia”, inviato dall’on. Enzo Mattina per il convegno di Polla

“Mentre riflettevo e prendevo appunti per approntare l’intervento da svolgere nell’evento promosso dall’Associazione Palazzo Albirosa, gli occhi mi sono caduti su un volume piuttosto corposo esposto nella mia libreria. L’ho preso e mi sono trovato dinanzi a una pubblicazione voluta e curata dal prof. Vittorio Bracco per “I cinquant’anni di un Liceo Classico”, che a pag. 445 contiene un mio articolo dal titolo “La transizione degli anni Ottanta”. Era il 1984, avevo 44 anni ed ero stato eletto deputato europeo da qualche mese. 1984 era anche il titolo del romanzo visionario di George Orwell, che rappresentava un sistema politico imperniato sul controllo di ogni individuo; insieme con “La fattoria degli animali” rappresenta la più forte presa di distanza dal totalitarismo del comunismo sovietico. Nel mio contributo al volume commemorativo del liceo Cicerone (ai miei tempi Principe di Piemonte) esprimevo soddisfazione per il fatto che la profezia orwelliana non avesse avuto successo, ma lanciavo l’allarme per l’invadenza delle tecnologie dell’informazione che “…si muove sempre più rapidamente, al punto che ogni evento invecchia prima ancora che si sia avuto il tempo di prenderne piena consapevolezza”. Aggiungevo che “forse è lontana la realizzazione della fabbrica senza uomini, che pur si progetta ad Osaka o a Tokio; e tuttavia l’office-automation fa piazza pulita d’impiegati e i robots industriali sostituiscono migliaia di operai”.

Enzo Mattina, Già dirigente sindacale, parlamentare italiano e europeo, ex sindaco di Buonabitacolo

E proseguivo segnalando che: “si installano e si utilizzano armi che, guidate da un cervellone artificiale, sono in grado di colpire un bersaglio distante anche migliaia di km. Con ciò la guerra diviene più disumana di quanto non sia mai stata, perché il soldato non vede più l’effetto della sua azione e, quindi, non ha neanche la possibilità di riflettere su di essa per evitare che colpisca un bambino o gente indifesa”. A conferma dei miei ragionamenti richiamavo l’economista J. Kenneth Galbraith, il politologo Jean-Jacques Servan-Schreiber; quest’ultimo ha parlato di velocità esponenziale delle innovazioni elettroniche a fronte della velocità lineare di tutte le innovazioni del passato. E non c’è dubbio che abbia avuto più che ragione il premio Nobel Wassilly Leonthief quando ha affermato che “come i cavalli sostituiti dalle automobili non hanno trovato utilizzazione delle fabbriche di automobili, così gli uomini e le donne sostituiti dai computers non troveranno utilizzazione nelle fabbriche dei computers”. Quanto ho detto fino ad ora era già ben visibile e acclarato nel 1984, vale a dire 41 anni fa; ora l’onda tecnologica innovativa è tanto irruenta nella forza e invasiva nell’estensione da apparire del tutto incontenibile. Dinanzi a questo fenomeno dobbiamo attrezzarci a individuare non una pozione miracolosa, ma la messa a punto di processi scientifici, sociologici, politici, economici che ci mettano in condizione di governare i cambiamenti non di subirli passivamente. L’impatto dell’onda tecnologica innovativa sul lavoro e sulla democrazia merita di sicuro di essere affrontato in via prioritaria. Il lavoro cambia nel contenuto, nelle quantità e anche nel valore economico. Il cambio nel contenuto non vale soltanto per la manifattura, ma per qualsiasi tipo di attività: dalla catena di montaggio siamo passati alle stazioni di lavoro; di sicuro le condizioni di svolgimento di una prestazione sono migliori (meno vincolate e meno esposte a rischi fisici). Epperò, possiamo dire che gli impianti nell’industria manifatturiera sono sottoposte a continue modifiche, che incidono soprattutto sulle quantità di energia umana che richiedono. Nella mia esperienza di segretario dei metalmeccanici ho vissuto il rapporto con una FIAT, che produceva tutto in casa, come le altre case automobilistiche, dalla ferriera, che approntava le parti in acciaio, fino all’automobile finita, che si posizionava nei piazzali in attesa dell’invio ai concessionari. Oggi si producono le automobili in funzione delle richieste già formalizzate nel mercato. L’impatto sulla quantità di manodopera stabilmente impiegata è di tutta evidenza: dipende sempre più dalla domanda. L’impiantistica viene permanentemente aggiornata e ciò si traduce in tempi più veloci di assemblaggio, collaudo e messa in strada del prodotto finito. Questi pochi e sommari accenni credo mettano ben in evidenza la variabilità quanti/qualitative delle prestazioni. In una situazione del genere, la variabilità delle regole, della forza lavoro necessaria impatta sulla stabilità e durata dei rapporti di lavoro stesso, senza contare che impone ricorrenti fasi di aggiornamento professionale. È del tutto evidente, dinanzi a tali e tante variabili, che tempi e condizioni di lavoro, aggiornamenti professionali, remunerazioni vanno di volta in volta negoziati sia nella dimensione nazionale che in quella aziendale. Riflettiamoci: il mercato dei capitali è permanentemente monitorato e, di volta in volta, enti e soggetti economici adottano misure correttive. Non si comprende perché non possa e non debba essere praticabile un meccanismo similare anche per i rapporti di lavoro. Mi sembra chiaro che la fissazione di un salario minimo per legge è una soluzione del tutto improponibile. La continua variabilità delle condizioni di lavoro implica un altro aspetto: l’adozione di un modello di formazione/aggiornamento continuo, caso mai prevedendo la combinazione di riduzione dell’orario di lavoro e riqualificazione. Quanto fin qui detto per il lavoro manifatturiero, vale ancora di più per quello nel terziario e anche nella Pubblica Amministrazione, dove il digitale impone aggiornamenti continui per rendere adattabile in tempo reale ogni pur piccolo intervento innovativo. Aggiungo che, a mio avviso, l’obbligo di fare i conti con ricorrenti innovazioni di processo e di prodotti impone che siano i diretti interessati, lavoratori e lavoratrici, ad essere i protagonisti di questa certa quanto lunga transizione. Lo dovranno fare con le loro Organizzazioni sindacali, riattivando i rapporti unitari interrotti per interferenze politiche nei primi anni 80. Il sindacato nel suo insieme deve ritrovare il protagonismo perduto negli ultimi lustri, come deve ritrovare la sua autonomia rispetto alle forze politiche. È la mobilitazione sociale che può arginare l’approssimatività delle strategie politiche che, se mostrano grossolanamente le debolezze degli interpreti della maggioranza del momento, evidenziano altrettante criticità nelle posizioni delle varie e tra loro confliggenti minoranze. Si avverte in Italia, come in Europa, l’urgenza di una nuova vivacità della partecipazione sociale, che nulla ha a che vedere con i ricorrenti fenomeni di ribellismo alimentati ora da rivalità sportive ora dalla riesumazione di comportamenti aggressivi contro forze dell’ordine, ora dal rifiuto irrimediabile delle diversità di pensiero e talvolta finanche di razza, di religione, di genere. Reduce dalle vicende sindacali d’inizio anni 80, penso alla vertenza FIAT con il suo lascito di amarezze e criticità, da cui, in rapida successione, era entrato in crisi il processo unitario del sindacalismo italiano, sviluppatosi tra l’ultimo lustro degli anni 60 e per tutto l’arco dei 70″.


Enzo Mattina

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