Search

Polla, nel Santuario di Sant’Antonio le foto di Romano Maniglia “Gli invisibili di Belgrado”

In occasione dell’incontro con Fabrizio Carucci per il convegno sul tema “Diritto al viaggio e all’ospitalità”, nella biblioteca del Santuario di Sant’Antonio è stata allestita una mostra, del fotoreporter Romano Maniglia, originario di Buonabitacolo, sul tema “Gli invisibili di Belgrado”.

Sono foto scattate nel gennaio 2017 quando, a seguito del suo interesse per la situazione dei migranti, Maniglia decide di partire per Belgrado e di realizzare un reportage documentario restando per una settimana insieme ai rifugiati nel campo dietro la stazione centrale dove, a pochi passi dal centro della città dietro la stazione dei treni della capitale serba, vivono da parecchi mesi più di mille persone. Pubblichiamo, di seguito, una parte della nota introduttiva alla mostra.

“Uomini, ragazzi e bambini che hanno imparato a diventare invisibili -si legge nella nota introduttiva-. Le loro sagome camminano nel freddo gelido di Belgrado, riscaldate solo dalla minestra calda preparata tutti i giorni dai volontari e dal fumo dei tanti fuochi improvvisati dentro vecchi capannoni abbandonati.

Un’unica richiesta: “Open the borders”, mille storie di vita diverse ma tutte segnate da violenza, emarginazione, guerra e da strada, tantissima strada. Belgrade Waterfront, le baracche dietro la stazione della capitale serba hanno accolto per anni i migranti che provavano ad arrivare in Europa occidentale dopo che la Balkan Route, la rotta migratoria via terra che dalla Turchia conduceva all’Ungheria passando per la Serbia, era stata chiusa ufficialmente nel 2016. Quando la rotta balcanica era ancora aperta, Belgrado non era nemmeno una tappa del viaggio. A partire dalla primavera del 2016, però, i parchi e le periferie della città si sono popolati di persone che cercavano, in qualche modo, di superare le frontiere serbe. Con l’arrivo del gelo, i migranti, impossibilitati nel proseguire il percorso, si sono man mano allontanati dai luoghi all’aperto, trovando rifugio nei vecchi magazzini abbandonati dietro alla stazione.

Quello di Belgrado era un campo “non ufficiale”, un ritrovo di fortuna per migliaia di uomini e donne che, nonostante il supporto di decine di associazioni di volontariato, vivevano in condizioni igieniche precarie e nella piena illegalità. La situazione all’interno delle baracche era drammatica e l’unico modo per ripararsi dal freddo era accendere fuochi pericolosi negli edifici. Qui vivevano persone provenienti soprattutto dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Pakistan e da alcuni paesi africani e, quando le foto che le ritraevano avvolte nelle coperte, in fila sotto la neve per un pasto caldo, fecero il giro del mondo, il disagio delle baracche venne alla luce. La scelta di costruire un accampamento nel cuore di Belgrado era stata una scelta simbolica, il campo si trovava infatti nelle immediate vicinanze di un’area urbanistica con edifici di lusso, che rientrava nel progetto di qualificazione della città finanziato dagli emirati arabi: il Belgrad Waterfront.

Due poli opposti della città vivevano simultaneamente, a pochi passi di distanza. Da una parte ricchezza e sfarzosità, dall’altra povertà e marginalità. In seguito allo scandalo delle foto, si cercò in tutti i modi di allontanare l’attenzione mediatica dalla vita dei migranti nelle baracche al punto che anche il terreno su cui erano sorte rientrò in questo progetto di riqualificazione. Così, gli occupanti furono trasferiti in centri vicini, da Obrenovac, a Krnjaca, nei dintorni di Belgrado, oppure verso il confine con l’Ungheria, nei centri appena costruiti.

Qui ancora oggi vivono migliaia di persone, ma la situazione di stallo è rimasta inalterata: i migranti non possono proseguire verso l’Ungheria perchè lì ogni richiedente asilo viene detenuto fino a quando la sua domanda di asilo non viene esaminata, non possono nemmeno proseguire verso la Croazia che respinge sistematicamente ogni persona che tenti di passare il confine illegalmente, nè tantomeno possono tornare indietro, ripercorrere la strada a ritroso è inimmaginabile. E allora cosa resta? Non possono far altro che attendere. Rimangono così, sospesi nel tempo e nello spazio, in una condizione di semi illegalità ad aspettare che le frontiere vengano aperte e che qualcuno si ricordi di loro”.

Condividi l'articolo:
Write a response

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Close
Magazine quotidiano online
Direttore responsabile: Giuseppe Geppino D’Amico
Close