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“Attraverso il Cilento”, nuova edizione del viaggio di C. T. Ramage da Paestum a Policastro: la recensione di Elena Marmiroli

Di Elena Marmiroli

Nell’aprile del 1828 un dotto ministro del culto scozzese, Craufurd Tait Ramage, di stanza a Napoli in qualità di precettore dei figli dell’ambasciatore britannico, intraprende un viaggio nei territori a sud della Capitale. Come altri prima e dopo di lui, è alla ricerca delle vestigia di quel mondo antico che un tempo aveva dato forma materiale e spiritualeai luoghi. Non sceglie però la strada più battuta, attraverso l’interno in direzione della Puglia, ma segue un suo puntiglioso itinerario lungo la costa tirrenica; un percorso che lo confronta immediatamente con il Cilento, contrada dimenticata dal mondo e in odor di brigantaggio. L’introduzione di Raffaele Riccio, a cui si deve anche la traduzione scorrevole e molto godibile del testo, situa il diario di Ramage sia nell’orizzonte dei “viaggi di scoperta” precedenti e successivi, che in quello, non facile, di una caratterizzazione socio-politica della regione.

Come tutti i veri viaggiatori, Ramage viaggia da solo, e a piedi. Quasi ovunque trova ospitalità aperta e cordiale, seppure l’arretratezza e la miseria materiale raramente consentano letti puliti e mense fornite. E tuttavia nemmeno le occasionali, ristoratrici soste nelle dimore dei maggiorenti, che volentieri lo tratterrebbero più a lungo in eruditi e cosmopolitici conversari, lo distolgono dal suo rigoroso programma. Si mangia e si beve volentieri, d’accordo, ma lui è lì per vedere. Per vedere i luoghi dove si dice che permangano tracce, rovine, testimonianze – rigidamente sceverando il medievale, che in un certo senso scarta, dall’antico. A volte trova qualcuno che gli fa da guida, più spesso procede da solo, si inerpica sulle sassaie sotto il sole, rischia di smarrirsi fra i bracci paludosi dei fiumi, ammira panorami di una bellezza che, nel suo stile pacato e misurato, riesce incredibilmente a comunicare. Si cammina con lui – e con lui si vede quello che lui vede: una realtà che in trasparenza ne lascia emergere un’altra, una realtà doppia e più profonda, un fondo antico ancora vivo e visibile – per lui a cui non solo le iscrizioni, ma i luoghi, i frutti, gli alberi, le messi, parlano le lingue di un tempo; mentre gli spiriti di coloro che furono – grandi e piccoli – si muovono e sussurrano nel paesaggio, ben lontani, eventualmente, dalle rispettive pietre sepolcrali.

C. T. Ramage

Emerge anche – forse suo malgrado, non è venuto per questo – nella secolare marginalità edeprivazione del territorio un curioso fermento, una tensione di attualità, una voglia di discussione che, se nel popolo non va oltre un amaro scontento, presso i più colti e i più informati è chiaramente voglia di Costituzione. Sfocerà, fra pensiero liberale e società segrete, negli sfortunati moti del giugno di quello stesso anno. Ramage è testimone del fermento come della conseguente, ossessiva pressione borbonica su tutto ciò che, diremmo, nel Regno si muove. Egli stesso, britannico e dunque liberal per antonomasia, è altamente sospetto all’autorità: che ci fa, questo inglese, a spasso per il Cilento? E dunque intimidazioni dirette o pelosi approcci obliqui…

Benché abbondantemente provvisto di retta coscienza e sano giudizio, la Storia per il nostro viaggiatore non è però, mi pare, tanto qualcosa che sfocia sull’attuale, quanto piuttosto uno strumento che prolunga la sua cassa di risonanza indefinitamente nel passato, e continua a far udire una melodia affascinante e malinconica.

Restano i briganti. Spesso evocati, fin dall’inizio. Un incontro che parrebbe inevitabile, tanto temuto quanto, in fondo, desiderato: il lusso estremo dell’esotico. E invece niente. Gli spiegano che in linea di massima uno come lui, uno sconosciuto che viaggia da solo, dai briganti non ha nulla da temere. I briganti praticano il sequestro degli abbienti per intascare il riscatto. Ma la loro attività principale, la più importante fonte di reddito, gli dicono, è il ricatto.

E questa parola, ricatto, getta per noi una lunga ombra. Un’ombra che ci dà un po’ i brividi.

Elena Marmiroli

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