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Le guerre di Trump – Carmine Pinto per Vallo Più

Di Carmine Pinto

Trump stava per entrare in guerra. La tregua di Gaza invece lo evita. Gli ostaggi, secondo il presidente eletto, dovevano essere liberati prima del suo insediamento, per evitare una ritorsione brutale nei confronti di Hamas. In realtà, se Trump canta vittoria, il risultato è inseparabile dalla politica di Biden, all’interno di un più ampio sguardo tra la sua eredità globale e quella che vedremo tra poco. Partiamo dalla tregua. Trump è un sostenitore deciso di Netanyahu, a differenza di Biden che lo ha criticato e spesso condizionato. Il nucleo strategico però è sostanzialmente identico. La conferma è il confronto tra Israele e l’anello di fuoco: il piano del generale iraniano Qasem Soleimani per stritolare Tel Aviv e fare dell’Iran la potenza dominante del Vicino Oriente. A gennaio del 2020 Trump fece eliminare Soleimani. Aveva lanciato gli accordi di Abramo, l’accordo tra USA, Israele e paesi arabi per la stabilizzazione della regione e il contenimento della politica imperiale iraniana. Dopo l’aggressione di Hamas, Biden ha sostenuto Israele, contribuendo a sconfiggere l’Asse della resistenza: Hezbollah è annientata, Hamas quasi distrutta, il regime di Assad crollato.

Carmine Pinto

L’Iran è stato umiliato nel confronto strategico quanto nel duello militare 0. Trump può chiudere la partita utilizzando i rapporti di forza reali, gestiti dall’amministrazione uscente. Anche in Europa, dove gli alleati degli americani sono stati forse gli unici (a differenza, ad esempio, dei latino-americani) a sperare nella rivale Kamala Harris, lo scenario è più articolato. Putin invase l’Ucraina nel nome della superiorità della Russia e della fragilità dell’Occidente; l’unica soluzione alla crisi era la resa o la subordinazione dell’Ucraina, accettando un nuovo equilibrio globale, modellato sulla Guerra fredda. Invece Biden ha costruito la più grande alleanza della storia della democrazia mondiale, il gruppo di Ramstein, mentre gli ucraini hanno dimostrato una capacità di resistenza inimmaginabile. Putin ha incassato le perdite spaventose del suo esercito, la fine del regime di Assad, il dato negativo dell’economia, la fuga di centinaia di migliaia di russi in Europa. Ha chiesto aiuto a paesi come l’Iran e la Corea del Nord, accettando il mortificante ruolo di subordinato alla Cina di XI Jinping. Gli USA oggi sono molto più forti e la Russia molto più debole. Se davvero Trump avuole intervenire e se incontrerà Putin (come vogliono i russi disperatamente), l’eredità di Biden gli offre tutti i vantaggi necessari. Questa volta ci sono però notevoli differenze. Trump e buona parte dei repubblicani considerano l’Europa un settore secondario rispetto alla sfida globale con la Cina. Ancora peggio, descrivono l’Unione europea come una associazione di stati per il benessere, garantita con però i soldi dei contribuenti americani. Trump minaccia di stravolgere la Nato e le sue strutture, senza un riequilibrio di risorse, istituzioni e apparati tra alleati, anche nella vicenda ucraina. Nonostante questo, nelle crisi più recenti la sua posizione è stata simile a quella degli europei e di Biden. Lo si è visto pochi giorni fa. Quando Maduro ha sancito anche formalmente la trasformazione del Venezuela in una dittatura, Trump (come hanno fatto gli europei) lo ha demolito, parlando a nome della vastissima comunità latino-venezuelana che lo ha ampiamento votato. Questo è un punto molto interessante, vista la completa ritirata degli USA dall’America latina dopo la fine della Guerra fredda. Marco Rubio, il prossimo Segretario di stato, sostiene una completa inversione di tendenza, dopo aver combattuto aspramente l’appeasement dell’amministrazione Obama nei confronti dei regimi cubano, nicaraguense e venezuelano. Trump sostiene la nuova generazione di presidenti americani come Bukele in Salvador, Milei in Argentina, Noboa in Ecuador. Sono schierati contro il castro chavismo, contro le tregue con i narcos e per una politica liberale o liberista. Il vero nodo è il Mexico, una grande potenza economica e culturale, con una presidente di sinistra antipatizzante nei suoi confronti, ma devastato dalle guerre dei cartelli. Non a caso, l’offensiva lanciata da Trump ha rivendicato il centro nstrategico dell’America, il canale di Panama, letteralmente preso d’assalto dai cinesi (come buona parte della regione). Si tratta della vera sfida globale che il presidente si è intestato (anche con le sparate sul Canada e sulla Groenlandia). In realtà, gli interventi degli apparati repubblicani storici sono chiari e lineari, non molto diversi dai democratici. Obama aveva indicato la Cina come il principale terreno della politica estera americana, un ragionamento che Trump fece suo, con azioni mirate (come contro Huawei). Una visione che prese quota soprattutto dopo che XI fece saltare il vincolo dei due mandati e annunciò la strategia imperiale della Via della seta. Trump, e poi Biden, hanno tenuto però un rapporto pragmatico e utilitaristico con XI, anche se il presidente uscente ha lavorato sul terreno ideologico del contrasto all’autocrazie e del rafforzamento dell’alleanza con le democrazie asiatiche. Trump ha ribadito concetti come la difesa di Taiwan (riferendosi spesso ai costi), ma su un profilo ben più pragmatico. Quello che dice è chiaro: contestare il ruolo della Cina come fabbrica del mondo e usare i dazi come minaccia, rilanciare la competizione nel Pacifico e preparare gli Usa a possibile sfida anche militare su larga scala (Xi ha avviato una corsa agli armamenti mai vista prima). Quanto peseranno continuità e nuove politiche, sembra tutto da verificare, in una sfida di queste proporzioni. Trump ha annunciato una macchina epocale, vedremo se segnerà l’equilibro globale, o il suo declino.

CARMINE PINTO

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