Rubrica a cura di Norberto Lupo
Vincitore del Premio Strega Giovani 2022, “Niente di vero” è un libro che si è fatto notare per la sua freschezza e la sua autenticità. Trattandosi di un’opera di autofiction, l’autrice racconta eventi della sua vita – soprattutto della giovinezza –in maniera romanzata al fine di ricavare degli esiti comici e irriverenti. È una storia incentrata sulla sua vita, in cui grande attenzione viene riservata ad un aspetto fondamentale dell’esistenza di chiunque: la famiglia.

Tuttavia Raimo decide di raccontare dei suoi genitori e del fratello utilizzando lo strumento della deformazione. Esagerando i tratti della persona, creando in questo modo un’inevitabile verve comica, questi personaggi si trovano invischiati in episodi spassosi, che però nascondono il velo di amarezza che avvolge l’autrice di fronte a certe situazioni vissute. Non a caso l’umorismo resta la salvezza per Raimo, unico strumento per creare una certa distanza – e un certo cinismo – tra ciò che si è vissuto e ciò che si vuole raccontare, soprattutto di fronte ad episodi imbarazzanti e pesanti come l’apprensione opprimente della madre, la smodata ipocondria del padre, la stitichezza, l’inettitudine e tanto altro. Il tema della bugia è essenziale – non a caso emerge anche nel titolo – e sembra quasi rappresentare l’unica voce che permette all’autrice di essere “sincera”, perché sembra che Raimo abbia bisogno di crearsi un “oltre” in cui poter vivere meglio, in modo più autentico e appagante, e questa dimensione sembra essere possibile solo attraverso la bugia, cioè attraverso la distorsione.

Mentire, tuttavia, porta ad un’assuefazione che può essere pericolosa, si può cadere nel tranello di non credere più a nulla e di voler fuggire davanti agli eventi della vita. Un atteggiamento simile può dimostrare anche la presenza di un certo infantilismo nel carattere della protagonista che si esprime chiaramente quando afferma: «Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole». Ciò è ovvio perché a furia di «immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci» si arriva inevitabilmente a vivere in un’altra dimensione; in un distorto universo in cui solo la scrittrice è ammessa e il resto dell’umanità è osservata e manipolata a proprio piacimento. Di notevole importanza è anche la riflessione sulla memoria. Seguendo la scia di Natalia Ginzburg, Raimo si interroga sul cosa sia la vera memoria. È davvero qualcosa che nessuno può toglierci se siamo noi, in certi casi, a dimenticarci di quello che siamo stati e di quello che abbiamo vissuto? Imprimere sulla carta ciò che abbiamo rappresentato in questa vita sembra essere l’unico modo per raggirare l’ineluttabile scorrere del tempo e Raimo, attraverso la sua voce algida e tagliente, lo crede fermamente: «La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo». Non si dimentichi, inoltre, che l’opera presenta uno stile essenziale, spezzato. Raimo non ama perdersi in fronzoli o in complessità linguistiche. La verità – o la menzogna – è qualcosa che si può raccontare con semplicità, soprattutto se si vuole lasciare più impresso ciò che si vuole esprimere. Personalmente ho apprezzato molto questo libro, il genere dell’autofiction non è molto consolidato tra i lettori italiani – dato che sono terrorizzati da tutto ciò che non riporti in quarta di copertina il termine romanzo – e il fatto che in quest’opera umorismo e malinconia, riflessione e scorrevolezza, cinismo e fragilità siano ben dosati tra di loro, mi porta a credere che sia uno di quei libri che lo scaffale di ogni libreria desidererebbe.