Di Giuseppe Geppino D’Amico
Il 10 dicembre scorso, a Nuova Delhi, in India, durante la 20ª sessione del Comitato Intergovernativo UNESCO, la cucina italiana è stata riconosciuta nella sua interezza “Patrimonio Immateriale dell’Umanità”. Un riconoscimento che si affianca ad altri tesori immateriali già protetti, come la Dieta Mediterranea (2010) e l’Arte del Pizzaiuolo Napoletano (2017). La cucina italiana, dunque, è Cultura. In base all’ordine cronologico non è la prima, come affermato nel momento dell’euforia da alcuni esponenti del Governo: è la terza, preceduta da Francia e Giappone. Ma questo è un dettaglio: il grande Totò avrebbe detto “è la somma che fa il totale”. Come evidenziato dal collega Elia Rinaldi in un precedente articolo su Vallo Più, il riconoscimento è stato particolarmente festeggiato in alcuni paesi. Tra questi figura Caggiano. I motivi?
GUARDA IL VIDEO CON LA NUOVA PUNTATA DI CON-TATTO
Caggiano, situato al confine tra le province di Salerno e Potenza, è uno dei paesi che meglio ha saputo conservare le proprie tradizioni e la propria identità. Nel dossier dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali, elaborato dal Ministero dell’Agricoltura e presentato all’UNESCO, figurano sei prodotti della cucina caggianese, le cui ricette e i cui metodi di lavorazione, ancora oggi utilizzati, raccontano una continuità profonda che ha permesso alla tradizione gastronomica del paese di mantenere un profilo riconoscibile e fortemente legato alle radici.
Un esempio? Il pranzo matrimoniale, che in passato si teneva nella casa degli sposi o in quella di amici. Le scuole alberghiere non esistevano e la bravura delle cuoche “professioniste” locali era il frutto della trasmissione della tradizione. Per diventare una brava cuoca servivano tre cose: passione, occhi attenti e mani sapienti. Nella fase preparatoria del banchetto, ogni decisione spettava alla cuoca che soprintendeva a tutto. Le cuoche più ricercate? In primis “Celina” Caggiano Abbamonte, che a giudizio pressoché unanime era considerata la migliore insieme a D’netta r’ Tagliarell (Antonietta Carucci) e D’netta r’ n’ dumm (Antonietta Lupo). Ma come si svolgeva e cosa offriva il banchetto tradizionale? Prima di elencare le singole pietanze è opportuno ricordare che, quando la cuoca riceveva l’incarico, era la sola ad organizzare il pranzo, a cominciare dalla preparazione della lista dei prodotti occorrenti, e anche i parenti degli sposi si rimettevano disciplinatamente alle sue disposizioni.
Riportiamo di seguito uno dei menù possibili, raccolto nel 2007 dalla viva voce di D’netta r’ n’ dumm e inserito nel volume di Luciano Pignataro, “Le ricette del Cilento” (Edizioni dell’Ippogrifo). Si cominciava con l’antipasto (prosciutto, capicollo o soppressata, sottaceti, acciughe arrotolate con un’oliva al centro e mezzo uovo sodo); quindi si passava alla M’nestra c’ r’ purpttin (verdura con le polpettine di carne, preferibilmente scarola riccia); poi veniva servita la M’buttutura c’ la salsa piccant, fatta con la pettola. Due i primi piatti: Zit a lu raù (ziti al ragù) e Spaghetti a la Genoves (spaghetti alla genovese). A seguire, Braciola alla caggianese e Genoves c’ li psiddi (genovese con i piselli freschi). Seguivano altre due portate di carne: Gallota di tacchino in salsa piccante e Scaloppina con formaggio e prosciutto. Il piatto esclusivo, perché si prepara solo a Caggiano, era ed è “Sua Maestà” il Pasticcio, un rustico a base di carne, uova e formaggi, squisito ma non propriamente leggero, accompagnato da Acc’ fritto (sedano fritto). Ancora carne con l’Arrust c’ la ‘nzalata (arrosto con insalata). Si arrivava quindi al dolce: Pizza roc’ (torta nuziale), sempre preparata dalla coca, e Prrt r’ lup (pasta bignè), seguiti da frutta di stagione, caffè e digestivo. Durante il pranzo veniva servito il vino degli sposi, messo volentieri a disposizione dai familiari. Da segnalare un’usanza significativa: gli invitati erano liberi di portare a casa ciò che non erano riusciti a mangiare.
La preparazione di un simile pranzo, quasi sempre per oltre cento persone, richiedeva più giorni di lavoro. Il primo giorno si preparavano le torte e si procedeva alla macellazione del vitello; il secondo giorno si selezionava la carne. Un unico obiettivo: fare bella figura. E infine il giorno del matrimonio. Quando la sposa entrava nella sala del pranzo riceveva il saluto e gli auguri di quanti avevano lavorato in cucina, che indossavano un grembiule pulito e rigorosamente bianco. La sposa ringraziava la coca e gli addetti: la riuscita del banchetto dipendeva soprattutto da loro. Lo stesso pranzo veniva preparato anche il giorno successivo, ma solo per i parenti più stretti.
A questo punto è lecito chiedersi: “E le ricette?”. Illustrarle servirebbe a poco: per preparare un pranzo simile occorrono mani sapienti ed occhi esperti, perché, come vuole la tradizione, “le donne di Caggiano pesano con le mani e misurano con gli occhi”. Ma è possibile mangiare tante pietanze in un solo pranzo? A Caggiano sì. Con la sua straordinaria arguzia Eduardo De Filippo avrebbe detto: “basta avere nu’ stommaco sfunnato”.
Un’ultima annotazione: durante il pranzo matrimoniale non mancavano musica e balli perché, come dice un vecchio proverbio, “Quannu la panz’ è cchjina bbona, tannu s’ canta e tannu s’ sona”. Di contro: “Quannu la panz’ è vacanta, non s’ sona e nun s’ canta!”.


