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“Il cuoco dello Zar. La vera vita di Michele Rivelli”: l’azzardo di Raffaele Riccio

Di Elena Marmiroli

Raffaele Riccio IL CUOCO DELLO ZAR La vera vita di Michele Rivelli
Edizioni dell’Ippogrifo 2025

L’azzardo a cui si espone Raffaele Riccio con “Il cuoco dello zar” è già tutto nella copertina. Al sottotitolo, “La vita vera di Michele Rivelli”, seguono luogo e data di nascita e di morte – un particolare che garantisce l’autenticità dell’eroe. Che bisogno ci sarebbe, per un personaggio inventato, di questa precisione da registro anagrafico? E così ostentata… Sicché quando in basso leggiamo “romanzo storico”, traduciamo automaticamente “biografia romanzata”. Se però il lettore, incuriosito fin dalle prime pagine dal temperamento riflessivo e un po’ malinconico di questo ragazzo Michele, fratello di latte e compagno di giochi di un re bambino che il padre e l’intera famiglia, partita a occupare il trono di Spagna, hanno lasciato indietro nelle sale o sulle magiche terrazze dei palazzi – se, dicevo, il lettore incuriosito cerca su internet ‘Michele Rivelli’ troverà come unico rimando il link al romanzo di cui stiamo parlando.

Raffaele Riccio

Relativa abbondanza di informazioni, invece, sul fratello Gennaro, mascalzoncello prima e farabutto poi, che tuttavia godette molto a lungo dell’amicizia e della protezione del sovrano, almeno finché le sue mascalzonate non divennero tali che nemmeno il re poté più proteggerlo. È lui, in realtà, il compagno di giochi e l’anima, se non proprio nera certamente non candida, che andò a occupare le vaste zone vuote nell’educazione superficiale impartita al sovrano. Ed è lui, invece, che il romanzo di Raffaele Riccio lascia risolutamente in ombra, accontentandosi di qualche accenno all’influenza negativa esercitata da Gennaro sul giovane Ferdinando. E dunque? L’autore si è inventato un fratello inesistente? Non proprio. Michele è esistito, tuttavia di lui si sa molto poco. Allora diciamo che il romanziere interviene per ovviare alle ingiustizie della sorte e ristabilire un equilibrio fra i due: dei quali uno è ricordato, seppur tristemente, ed è in un certo senso ancora presente nelle tappe felici o infelici della sua vita, che ci sono note; mentre sull’altro è calato non tanto l’oblio quanto la pagina bianca del nulla: una vita scomparsa, impossibile da riafferrare, non ci sono appigli. Regalare una vita al fratello “oscurato”, immaginare questa vita, che non è del tutto fittizia ma della cui “verità” non sappiamo quasi nulla, piazzare una finzione dove ci fu invece una realtà – questo è l’azzardo di cui si diceva.

Raffaele Riccio lo affronta in modo non dissimile da quello di un altro biografo di fratelli oscuri, ombre che accompagnano vite più eclatanti. Sto parlando di Stéphane Audeguy e del suo romanzo Fils unique (it. Mio fratello Rousseau, Fazi 2010), autobiografia fittizia del fratello “mascalzoncello” di Jean- Jacques, François Rousseau, che fuggì da Ginevra a 17 anni e di cui non si ebbero più notizie. Sia Riccio che Audeguy fanno del fratello ombra – un fantasma che un giorno ebbe un corpo e un’anagrafe – essenzialmente un testimone: testimone diretto di temperie e di eventi epocali, sorta di picaro a cui la fortuna assicura via via punti di osservazione privilegiati: nel caso del nostro la Parigi dei salon illuministi e pre-rivoluzionari, la Vienna del Congresso, la Pietroburgo di Caterina II e Alessandro I che sancisce la definitiva, massiccia e dal punto di vista odierno direi imbarazzante presenza russa in Europa. Non che Michele Rivelli non abbia una vita personale – vale a dire, oltre che professionale, sentimentale e sessuale. I suoi amori, però, nascono e si sviluppano quasi tutti nella sfera dell’(alta) cucina; sono per così dire a portata di mano, non necessitano di grandi spostamenti, letterali o metaforici. Con un’unica, folgorante eccezione che lasciamo al lettore di scoprire, sono amori tranquilli: quali si con fanno a una personalità meditativa. Quindi una vita personale e una dimensione intima, certo, e tuttavia una vocazione alla testimonianza. Se non può essere testimone diretto, Michele raccoglie e trasmette i racconti di chi c’era e ha partecipato. Per esempio, nell’interludio alla Certosa di Padula – spazio di contemplazione e riflessione fra l’infanzia del “menino” nelle regge napoletane e la maturità nordeuropea del grande chef – i racconti del vecchio monaco che in gioventù, e prima di vestire l’abito, ha combattuto nelle guerre contro i Turchi al seguito di Eugenio di Savoia. Un secolo e oltre si specchia insomma in questo romanzo; un secolo che ideologicamente, passando per la rivoluzione francese, va dall’ancien régime a una traballante Restaurazione, mentre geopoliticamente segna il declino della Sublime Porta: fine della spinta espansionistica turca in Europa e inizio di quella russa. Dopodiché, ognuno può pensarne ciò che crede e Michele Rivelli si astiene dall’esprimere giudizi. Di questo – di non sparare giudizi anacronistici quanto scontati – gli siamo grati. Da privata persona qual è, lo chef si muove attraverso l’Europa posando sugli uomini e sulle cose uno sguardo privato. Non certo ingenuo – ha visto, il ragazzo e poi l’uomo, troppe cose – ma senza pretese di prospettive dall’alto o panoramiche a volo d’uccello. Conteso fra potenti che fanno la Storia o assistono al suo farsi da posti di riguardo, il suo rapporto con gli eventi è un rapporto con le persone – con la consapevolezza che molto, veramente molto nelle vicissitudini del mondo dipende dall’indole, dal carattere, dalle scelte di coloro che esercitano il potere e dalle rispettive reazioni alle circostanze. In un certo senso, in fondo, dal caso. Dalla quantità infinita di piccole contingenze che fanno la monade: l’evento. Talché un dîner mondano perfettamente riuscito può avere lo stesso peso, a Vienna, di una ben congegnata astuzia di Talleyrand. Resterebbe da parlarne, di questi dîner, e colazioni, e caffè, e sorbetti, e meringhe… insomma di tutta l’ingente parte gastronomica che contribuisce, con le tavole imbandite e le sapienti composizioni dei menu, al fascino della narrazione. Ma, consapevole dei miei limiti, lascio ora questa cura, o questo divertimento, a chi se ne intende più di me.

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