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Trump il rivoluzionario? – di Carmine Pinto per Vallo Più

di Carmine Pinto

Meloni sarà in America. Nel frattempo, l’Europa si prepara, per rispondere alla crisi commerciale scatenata (e ora bloccata) dal presidente americano Trump.

Si cerca una complicata negoziazione tra gli stati europei e gli USA, magari con l’azzeramento reciproco di tassazione e concessioni da parte degli europei (acquisto di armi, aumento di spese per la difesa, delocalizzazione di imprese). In ogni caso, se non è possibile prevedere esiti o risultati di queste trattative (con i dazi saranno sospesi), Trump è al centro di una rivoluzione politica. Si può tentare di comprenderne il profilo, collocando questo progetto in una prospettiva storica e con i suoi caratteri ideologici, concentrandoci sugli aspetti internazionali.

La premessa è che gli Usa e l’Occidente vinsero la Guerra fredda intrecciando politica di potenza e internazionalismo liberale; la rivoluzione trumpiana invece separa nettamente l’affermazione di potenza nazionale da qualsiasi visione ideale generale.

Lasciamo sullo sfondo la Guerra fredda occidentale, con le sue luci e ombre, per verificare la portata di questa rottura, concentrandoci sulle presidenze americane dopo il 1989.

George H. Bush portò a conclusione la Guerra fredda, accompagnando il crollo del sistema sovietico con una politica dialogante e integrativa rispetto alle élite sconfitte, indicando una proposta di tutela dell’ordine mondiale.

Bill Clinton lavorò a una integrazione globale del capitalismo e dei suoi successi dopo l’epocale disastro dei regimi comunisti, con uno scambio tra tecnologia-ricchezza versus speranza di diritti civili e democratizzazione dei paesi disponibili. George W Bush parlò di esportare la democrazia come strumento di liberazione e di sicurezza, affermando la centralità americana nella lotta al terrorismo e nell’equilibro con Russia, Cina e altre potenze.

Ogni presidenza fu marcata da problemi e fratture, a volte errori clamorosi, quasi sempre da questioni inaspettate, ma tutte conservarono una relazione inseparabile tra ruolo degli USA; narrazione idealista-democratica; garanzie per le democrazie mondiali; relazione con l’Europa democratica.

La presidenza Obama rappresentò una prima rottura, con l’allontanamento dalla stretta integrazione politico-culturale con l’Europa, superata dalla progressiva sostituzione con il mondo latino-asiatico; la rinuncia a un certo ruolo di garante/intervento globale, con la priorità assoluta assegnata alla politica interna e alla trasformazione della società americana.

La prima presidenza Trump fu allo stesso tempo una reazione (alla politica di apertura/diritti sociali) e in continuità (sempre più distante dall’Europa e in genere dall’azione internazionale). Iniziò anche un primo e duro confronto con la Cina, ma l’impressionante confusione della sua amministrazione, le contraddizioni politiche permanenti, infine l’arrivo della pandemia limitarono l’azione di Trump. L’assalto a Capitol Hill sembrò chiudere definitivamente questo esperimento.

Biden, sul terreno internazionale, ricostruì con successo l’intreccio tra piattaforma democratica e centralità globale: una grande alleanza a difesa dell’Ucraina; una politica di dissuasione della Cina per Taiwan; un contenimento della crisi di Gaza. Il tutto tentando un rinnovamento globale della Nato e contemporaneamente uno stretto rapporto con l’Europa. Il successo di Trump invece ha messo radicalmente in discussione lo schema di Biden, contestandolo profondamente e ampliando questa critica radicale a tutta la storia dell’interventismo/idealismo globale americano.

La rivoluzione trumpiana afferma che il costo della difesa delle democrazie e dell’ordine internazionale; l’integrazione e la riorganizzazione capitalista della seconda globalizzazione; la competizione con la Cina e altri rivali internazionali sono linee convergenti e devastanti per l’economia e la società americana. Il populismo trumpiano indica colpevoli di natura diversa, dai difensori dei diritti civili agli immigrati. Restando sul terreno della politica internazionale, le colpe del declino americano sono assegnate alle élite globaliste statunitensi (giudicate autoreferenziali ed elitiste), agli alleati europei (considerati predatori ed irresponsabili), ai numerosi partener internazionali (capaci di volgere a proprio vantaggio i mercati USA).

La politica trumpiana individua però nella Cina il vero avversario e lo ha confermato ora: i dazi sono sospesi per tutti, ma moltiplicati per Pechino. Sul piano commerciale ed industriale, è il rivale del secolo: va limitato costringendolo ad un patto a condizione. In questa ottica, una serie di potenze come la Russia o la Corea del Nord, vanno neutralizzate o allontanate dal vero nemico, per chiudere fronti inutili o dispendiosi, rispetto alla strategia americana. Altre nazioni devono invece negoziare a condizione, a partire da una Europa considerata fragile se non imbelle (e che ora anche il presidente italiano dovrà tentare in ogni modo di garantire).

La politica di potenza assoluta e brutale, priva di orpelli linguistici formali, ma soprattutto distante dall’idealismo reaganiano, dal realismo di Bush, dal globalismo clintoniano, dal liberalismo di Biden, è la versione internazionale della rivoluzione trumpiana. Si tratta di una rottura epocale. Per ora solo in fase iniziale e tutt’altro che scontata nei suoi risultati, ma è diventata l’elemento decisivo nel confronto globale.

Il liberalismo europeo e quello americano devono farci i conti, introducendo idee, azioni e politiche capaci di rispondere ad una rottura di questa portata, senza dimenticare che restiamo all’interno della sfida che Cina, Russia o Iran portano alla democrazia mondiale.

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