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Nel dialetto la nostra identità

Come eravamo. Sala Consilina, Via Roma.

di Giuseppe D’Amico

Il “Canto delle lavandaie del Vomero” è il primo brano in dialetto napoletano di cui è stato ritrovato lo spartito musicale; risalirebbe al XIII secolo e alcuni studiosi lo considerano un atto di protesta contro gli Aragonesi. E’ la dimostrazione di quanto antico sia il dialetto, una lingua parlata c he merita la massima attenzione.

Anche nel Vallo Diano è tornata forte l’attenzione per il dialetto come dimostrato anche da recenti pubblicazioni: i volumi di Vincenzo Andriuolo (“Il dialetto romanzo di Teggiano”, e la ristampa con commento dei “Friseddi ri Carajèsima”, pubblicati da Gaetano D’Elia nella seconda metà dell’800); il “Vocabolario ragionato del dialetto di Sanza, Cume parlàvanu li vavi”, di Rita Giordano Eboli e il recentissimo “Ni sìmu rufriscàti a la cìbbia ri la Sinacòca”, cunti e versi in vernacolo teggianese” scritti da Cono Cimino. E prima ancora “Così parla(va) Sassano” di Pasquale Petrizzo e i “Canti popolari Salesi” raccolti da Peppino Colitti.

L’Italia è la nazione europea più ricca di dialetti, un autentico “patrimonio” immateriale da rivalutare al punto che dieci anni fa l’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia (UNPLI) ha istituito la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali, che si svolge il 17 gennaio.

Ma che cos’è il dialetto? È “la lingua del cuore”, una “lingua” che non ha grandissima tradizione scritta ma che, fortunatamente, esiste in quanto viene parlata e speriamo lo sia anche in futuro perché la scomparsa del dialetto sancirebbe lo smarrimento dell’anima, la perdita della memoria e delle radici, della cultura contadina e della nostra stessa storia. Anche nel Mezzogiorno d’Italia alcune tra le cose più belle sono state scritte proprio in vernacolo. Penso a Eduardo Scarpetta, Eduardo De Filippo, Ignazio Buttitta, Otello Profazio, Maria Carta e Rosa Balistreri senza dimenticare i grandi poeti napoletani come Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio e tanti altri). Per quanto riguarda la provincia salernitana va ricordato che il primo studio sul dialetto cilentano risale al 1869. Si intitola “Del Cilento e del suo dialetto” un opuscolo inviato dal medico, Federico Piantieri ad Ernesto Palumbo, officiale della Biblioteca Nazionale di Napoli. Il Piantieri elenca una serie di vocaboli, a volte accompagnati dall’etimologia, che a suo parere potevano “illustrare il dizionario patrio” per poi concludere: “…raccomando a tutti gli amatori dell’idioma italiano di mettere in pubblica mostra i tesori di tanti vernacoli”. Evidentemente, già 150 anni addietro si avvertiva la necessità di salvaguardare il dialetto evitando quello che con una felice espressione è stato definito “il genocidio dei piccoli dialetti a causa della globalizzazione”.

Una riflessione particolare va fatta per lo studioso tedesco Gerhard Rohlfs, docente presso l’Università di Tubinga, filologo e glottologo di fama internazionale al quale va il merito di aver dato alle stampe (tra il 1949 ed il 1954) i tre volumi della sua fondamentale Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, e negli anni ’80 un ampio ed articolato saggio dal titolo “Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento”. Anche altri studiosi tedeschi si sono occupati del nostro dialetto: Rainer Bigalke, autore di un Dizionario dialettale della Basilicata (nel 1980) e del volume Mille sentenze e detti lucani (nel 1986), entrambi pubblicati dall’Università “Carl Winter” di Heideberg. Anche un altro tedesco, Heinrich Lausberg, venne nel 1937 a studiare il dialetto dei paesi del Meridione. Una caratteristica del linguaggio del passato usato ancora oggi è legata ai proverbi dialettali che mantengono intatto il loro fascino. Benché espressione della tradizione popolare, alcuni modi di dire sono talmente profondi che confermano la forza delle parole.

Un altro elemento importante è dato dalla connessione con altre lingue, frutto delle varie dominazioni che il Sud ha subito nel corso dei secoli: Greci, Lucani, Romani, Arabi, Spagnoli, Inglesi, Francesi. Tutti i dominatori di ieri ci hanno lasciato qualcosa dei loro usi, costumi e linguaggi!  Un’ultima considerazione: nell’800 il vernacolo veniva parlato dal contadino ma anche dal notaio, dal medico e da altri professionisti; oggi l’uso del dialetto racchiude una separazione di ceto sociale e la sua area si va restringendo sempre di più e l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa ne limita l’uso anche a chi resta in paese. In tale ottica, diventa fondamentale far conoscere alle giovani generazioni la storia del passato, la conoscenza del territorio dei loro antenati e delle cose fatte nel tempo. Altrettanto importante è far loro intendere che sono anelli di una lunga catena e che occupano uno spazio preciso della storia. Il dialetto, quindi, va riscoperto e salvaguardato perché riguarda la nostra vita, la nostra storia; soprattutto ci offre un passato di cui essere fieri. Sarebbe bello se ad occuparsene fossero le scuole del Vallo di Diano.

L’argomento è stato discusso più volte nel corso delle manifestazioni di presentazione dei libri di Vincenzo Andriuolo, Rita Giordano, e Cono Cimino alle quali ho avuto il piacere di partecipare. In particolare, proprio in occasione del libro di Cono Cimino (San Marco di Teggiano, 17 settembre) è stato chiesto al consigliere regionale Corrado Matera, già assessore regionale, presente alla manifestazione, di mettere mano alla precedente legge regionale del 2019 che fa riferimento al dialetto napoletano. La risposta è stata positiva. L’auspicio è che l’iniziativa possa concretizzarsi in tempi brevi.

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